conversione…

Questa è la storia di Paolo e Ravit e di un matrimonio tra un vicentino non ebreo e una israeliana ebrea. Una storia che gira il mondo tra Bangkok, Vicenza, Israele, tre figli e molte vite diverse. Ravit nasce da una famiglia ashkenazita israeliana che fino a una generazione fa, quella dei suoi nonni, era osservante e con forti legami con il mondo dei chassidim di Gur. Il padre di Ravit, dopo aver servito l’esercito di Israele, si allontana dalla tradizione ebraica dei genitori pur rimanendo un ebreo che celebra il kiddush il venerdì sera e va al tempio per le feste. La figlia, Ravit, viene presa dal mondo, dai viaggi e da un marito non ebreo e da una vita a Vicenza, città italiana senza presenza ebraica ( tranne un meraviglioso cimitero che probabilmente è molto bello da visitare per la Giornata Europea della Cultura Ebraica) dove lei, Ravit, porta una mezuzà e celebra il kiddush ogni venerdì sera come suo padre fa da sempre.
Paolo sposa Ravit con rito civile, vivono insieme, sono felici e acconsente che i suoi figli maschi siano circoncisi a otto giorni dalla nascita e siano educati ebraicamente secondo i ritimi di Ravit.
Come molti altri italiani Paolo e Ravit subiscono gli effetti della crisi e decidono di chiudere le loro imprese a Vicenza e ricominciare da capo in Israele.
In Israele Ravit, come lei stessa racconta, inizia a “chiudere il cerchio” della propria identità e torna a casa, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente. E Paolo per il momento sta a guardare. E guarda la kasherut in casa, lo Shabbat che diventa più significato e significativo, la vita coniugale che cambia, i libri nuovi che legge Ravit. Fino a quando Paolo non riceve in regalo da Ravit un libro che gli parla di ebraismo e fede. Ed anche Paolo inizia il suo cammino. Inizia ponendosi domande e cercando di seguire se stesso e il suo rapporto con Dio, prima ancora che Ravit. E Paolo inizia a studiare per il ghiur, lui che ha seri problemi di dislessia, che non potrà certo imparare a pregare in ebraico, che ha una fede profonda al di là della sua propria informalità e del suo essere fuori dagli schemi che vorrebbero un ebreo religioso inquadrato in un certo modo che non è il modo di Paolo, ed in realtà non è neanche un modo necessariamente ebraico.
E Paolo si scontra più volte con un rabbino che lo incontra nei freddi uffici della Rabbanut di Israele e non crede che dietro un uomo con qualche tatuaggio e una vita vissuta in tanti luoghi e tanti mondi diversi ci possa essere una reale osservanza delle mitzvot. Ma Paolo e Ravit insistono, perché loro sono ebrei religiosi e così vogliono vivere e così vogliono educare i loro figli. E chi crede in Paolo e Ravit non si arrende con loro. Non si arrende all’idea che una persona osservante debba essere per forza di cosa vestito in un certo modo, debba per forza di cose leggere perfettamente l’ebraico e debba sostenere decine di esami di cultura ebraica ben al di là della normale e giusta vita di un semplice ebreo osservante. E Paolo è un ebreo osservante: mangia casher, prega tre volte al giorno con il suo siddur in italiano e con l’ebraico traslitterato, sa indossare i tefilin (e nel privato di casa sua lo fa) e nella sua officina orafa passa ore a parlare con i suoi amici osservanti, un po’ in inglese e un po’ in ebraico.
E Paolo finalmente riesce ad arrivare di fronte a un Bet Din del Rabbinato Centrale di Israele, un Bet Din che ha compreso Paolo, ha saputo leggere le sue difficoltà tecniche e ha saputo verificare la veridicità della sua osservanza. Un Bet Din che ha compreso Ravit, il suo cammino verso casa che ha portato con sé tre figli e un marito. Un Bet Din che ieri ha accolto nel popolo ebraico un nuovo ebreo e ha creato una nuova famiglia ebraica, facendo sorridere tre bambini italo-israeliani che vivranno la huppà dei propri genitori, dopo aver vissuto la profonda e semplice fede del proprio padre e il coraggio della Torà della loro madre.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(23 agosto 2015)