L’analisi – Per Israele un anno di solitudine

sdpUscita contemporanea su Pagine Ebraiche e sull’autorevole settimanale ebraico newyorkese “The Jewish Week” per Sergio Della Pergola, illustre demografo e storica firma del giornale dell’ebraismo italiano.
Una riflessione al cuore dei temi di queste giornate.

L’anno ebraico che si conclude in questi giorni è stato segnato da una grave erosione nella posizione strategica di Israele in un mondo geopolitico in rapida trasformazione. Due le componenti di questa erosione, una esterna e globale che definisce i rapporti fra i paesi del mondo e Israele, e una più interna che riflette la risposta di Israele a queste sfide, e di riflesso coinvolge anche la diaspora ebraica. Il gancio al quale possiamo appendere tutto il racconto è indubbiamente l’accordo raggiunto a Vienna il 14 luglio (anniversario della Rivoluzione francese) fra i rappresentanti dei 5+1 e l’Iran sullo sviluppo futuro del nucleare iraniano. Il corpo centrale dell’accordo, che è stato presentato con una retorica alquanto banale come “un segnale di speranza per il mondo intero”, non costituisce ovviamente più che un copione generale di possibili futuri sviluppi la gestione dei quali rimane fermamente nelle mani dei padroni di casa iraniani. Nessuno, onestamente, ha parlato di certezze. Molti hanno parlato di controlli, glissando però sulle grottesche incongruenze delle procedure stabilite. È un accordo basato essenzialmente sulla fiducia, circa come una stretta di mano, ed è inquietante che le potenze occidentali siano pronte a dare tanto credito a una controparte di cui sono ben accertate le attività militari e terroristiche intese a scardinare l’ordine in Medio Oriente e non solo. Meno sorprendente la posizione della Russia e della Cina il cui interesse principale, a parte il contenimento dell’espansione iraniana, è quello di indebolire l’egemonia americana e tenere a bada quel malfermo e cigolante colosso che è l’Unione Europea. È altamente inquietante che un accordo di essenziale importanza macro-strategica come quello di Vienna abbia dovuto dedicare articoli di liberatoria dalle sanzioni individuali nei confronti di personaggi iraniani notoriamente a capo del terrorismo internazionale. Ma i punti cruciali dell’accordo sono due. Il primo – che ne è la conseguenza – è la rimozione di fatto delle sanzioni che avevano causato seri danni economici ed erano servite a creare un minimo di deterrente di fronte all’aggressivo espansionismo iraniano, dalla Siria al Libano, dallo Yemen all’Iraq, da Gaza al resto del mondo (vedi il massacro dell’esplosione all’edificio centrale della comunità ebraica di Buenos Aires nel 1994). Per l’Unione Europea, che deve trangugiare la voragine economica del debito greco, le nuove aperture iraniane servono al bisogno disperato di fare affari con un ricco mercato rimasto chiuso negli ultimi anni. Nelle parole dell’allora ministro D’Alema, il boicottaggio economico all’Iran corrispondeva alla perdita di un anno di pil italiano. Ma oggi il vero dato fondante è la rinuncia dell’Occidente a condurre una strategia politica che, al di là della tutela dei propri interessi militari ed economici di breve o al massimo di medio termine, includa anche un giudizio di valore, una linea etica nei confronti dell’avversario, e soprattutto una disponibilità a combattere per difendere i propri valori conclamati oltre che la propria sicurezza in caso di bisogno. A Vienna, i paesi occidentali, che qui ci interessano più da vicino, hanno accettato di trattare senza condizioni, quindi omologandolo, con un regime guidato da un gruppo esaltato di ideologi in divisa che dal 1979 sono fonte primaria dell’estremismo fondamentalista islamico, proclamano la distruzione di Israele, non importa se immediatamente o a tappe, e fomentano eversione e violenza in tutto il mondo. L’Occidente ha abdicato a quella che un tempo si poteva almeno sostenere fosse una sua prerogativa morale: costituire un bastione di valori democratici e di libertà civili di fronte alla prevaricazioni e alle dittature. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti con la coda neghittosa dell’Europa, ha dichiarato senza equivoci che rinuncia all’uso della guerra nella risoluzione dei conflitti. La guerra dovrebbe essere l’ultima delle risorse possibili, da evitare se non in drammatiche circostanze d’emergenza. Ma la rinuncia a priori all’uso della forza, proclamata in termini inequivocabili dai massimi dirigenti, distrugge ogni possibile deterrente e di conseguenza lascia il campo libero all’Iran e ai suoi alleati. Le analogie col trattato di Monaco, sollevate a suo tempo da Ariel Sharon e ora con maggior insistenza da Benjamin Netanyahu, sono tutt’altro che implausibili. Israele viene lasciata a cuocersi nel suo brodo mentre il mondo guarda avanti. È vero che con parole non equivoche Matteo Renzi e Paolo Gentiloni hanno riaffermato l’amicizia dell’Italia verso Israele, ma l’Italia con tutto il rispetto conta poco. Il presidente Obama ha superato ogni limite retorico proclamando guerrafondai i leader israeliani che in grandissima maggioranza ritengono insufficiente e pericoloso l’accordo di Vienna. Obama ha poi aggiunto che se infine una guerra dovesse occorrere, implicitamente o esplicitamente a causa di Israele (e degli ebrei, dico io), a pagarne le maggiori conseguenze sarebbero la stessa Israele (e gli ebrei). La mente stenta a crederci, ma un discorso dai toni certo diversi ma dalla logica molto simile era già stato pronunciato dall’innominabile alla fine degli anni ‘30 del 20° secolo. Al di là dell’accordo di Vienna, che sacrifica dunque gli interessi di Israele di fronte a quelli dei paesi firmatari, bisogna però prendere atto di un processo più generale di erosione della posizione strategica di Israele sulla scena internazionale. Il boicottaggio economico e accademico aumenta di intensità e se non raggiunge per ora risultati drammatici, riesce però già a creare danni marginali. La Corte Internazionale dell’Aja emette sentenze velleitarie e punitive con i medesimi effetti. Le Nazioni Unite ogni giorno, in assemblea plenaria o nei comitati come quello sui diritti civili, prendono decisioni basate sul principio di due pesi e due misure. A parte la predisposizione negativa di molte nazioni, religioni e culture, Israele è isolato anche perché nessuno al mondo (e nemmeno una buona metà degli israeliani) accetta oggi la narrativa governativa circa non solo la legittimità ma l’essenzialità degli insediamenti in Cisgiordania. Ma la tutela e l’espansione degli insediamenti costituiscono la pietra angolare sulla quale Bibi ha creato la sua precaria coalizione governativa. Israele soffre di fatto la disfunzione di un paese che non ha una politica estera ma solo una politica interna, tanto che non si è nemmeno presa la briga di nominare un ministro degli Esteri, limitandosi solo a una sottosegretaria che per le sue doti dialettiche potrebbe ben dirigere un movimento giovanile, ma non di più. L’ideologia dunque come unica chiave operativa, senza nulla di quell’articolazione concettuale e capacità manovriera di mediazione e collaborazione politica che forse non sarà l’elemento decisivo ma a volte aiuta nelle occasioni di grande crisi. La crisi della politica estera di Israele è grande. Netanyahu, aiutato da pessimi consiglieri, ha scelto la via del confronto diretto con Obama, puntando sulla sua non-rielezione nel 2012, svolgendo un’accanita campagna elettorale a favore del partito repubblicano, nominando a Washington un ambasciatore filo-repubblicano, Ron Dremer, che è stato quasi dichiarato persona non grata, e apparendo in piena campagna elettorale israeliana di fronte a un Congresso americano che lo applaudito ma che molto difficilmente avrà i numeri e soprattutto la tempra per mettere ostentatamente in minoranza il presidente sull’accordo di Vienna. Tanto più che se oggi l’accordo fosse abrogato, l’Iran potrebbe procedere sulla via del nucleare senza più alcuna remora. A corroborare le sue scelte, Bibi ha certamente creduto che gli ebrei della Diaspora si sarebbero arruolati senza riserve a difesa delle tesi e degli interessi di Israele. Ma anche su questo piano la delusione è cocente. Una grande indagine di opinione effettuata dal centro Pew nel 2013 confermava il forte appoggio generale degli ebrei americani nei confronti dell’amministrazione Obama. Un più recente sondaggio mostra come la maggioranza degli ebrei americani approvino la posizione del presidente sulla questione iraniana. Stiamo assistendo al ritorno graduale del popolo ebraico all’impotenza strategica che credevamo fosse finita nel 1948.

Sergio Della Pergola, Pagine Ebraiche settembre 2015

(28 agosto 2015)