I musical e l’identità ebraica,
una storia di succcesso
“In ogni grande avventura, se non vuoi perdere, la vittoria dipende dalle persone che scegli. Quindi, caro Arthur, ascolta molto bene questa notizia: non avremo successo a Broadway se non prenderai degli ebrei”. Anzi, quest’ultima rivelazione bisogna proprio riportarla in inglese – “You won’t succeed on Broadway if you don’t have any Jews” – un po’ perché è proprio il titolo della canzone del musical Spamelot da cui è tratta e per cui è diventata famosa, e un po’ perché adesso è anche il titolo di un musical, in scena nei teatri londinesi dopo essere passato da Tel Aviv. You Won’t Succeed On Broadway If You Don’t Have Any Jews prende alla lettera la satira metateatrale della canzone, e ne fa un intero spettacolo in cui le canzoni più famose di Broadway, che si dà il caso siano state per la gran parte scritte da compositori ebrei, vengono messe una in fila all’altra per due ore di lustrini e Jewish pride al St James Theatre.
Non ci si interroga se questa sovrabbondanza di ebraismo nell’ambito del musical sia tutta una coincidenza o altro, e le critiche parlano all’unanimità di un’assenza totale di volontà di fare affermazioni politiche per dare spazio esclusivamente all’intrattenimento. Si va in ordine cronologico attraverso i decenni, partendo dai nomi immortali di George e Ira Gershwin e Irving Berlin, per arrivare ai successi contemporanei, come Rent, Hairspray, Dreamgirls o Parade. In un susseguirsi convulso di gambe tese, giravolte e medley arditi, ci sono tutti: c’è Fantine che canta i suoi sogni infranti e come sempre si piange con lei e non c’è niente da fare (“I Dreamed a Dream”, Les Misérables), c’è Lumière che sfoggia il suo miglior accento francese per invitarci a cena (“Be Our Guest”, Beauty and the Beast), c’è Eliza Doolittle che non potrebbe dormire nemmeno per tutti i gioielli della corona (“I Could Have Danced All Night”, My Fair Lady), e non ditelo a Paul ma c’è anche Amy che però oggi proprio non lo sposerà (“Getting Married Today”, Company). E poi insomma, non si può certo mettere su un musical sull’ebraismo senza un po’ di “tradition”, e il Violinista sul tetto, il primo spettacolo di Broadway interamente a tema ebraico, ha tutto lo spazio che merita.
La verità è che questa ricchezza di compositori ebrei non è passata inosservata negli ultimi anni. Se n’è acorto anche Neil Patrick Harris, che nel suo numero di apertura della cerimonia dei Tony Awards del 2012 cantava che oggigiorno in fondo “il musical non è più solo per gay ed ebrei”, facendo sorridere milioni di americani. Ed è una verità addirittura contenuta in opere specifiche, ad esempio in un volume del 2011 intitolato Jews on Broadway, a cura di Stewart F. Lane, una sorta di enciclopedia che tra l’altro raccoglie anche cantanti, ballerini, attori, registi, scrittori e produttori. Anche il documentario Broadway Musicals: A Jewish Legacy di Michael Kantor nel 2013 raccoglieva interviste, spezzoni di spettacoli, commenti e testimonianze. Tra cui una conversazione tra i mitici compositori Cole Porter e Richard Rogers che merita di essere riportata. Porter gli raccontava di essersi finalmente reso conto dopo alcuni insuccessi di quale fosse la formula vincente per scrivere musical. E quando Rogers gli chiedeva di svelargliela, candidamente rispondeva: “La semplicità in se stessa. Scriverò melodie ebraiche”.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
(31 agosto 2015)