La leggenda nera
Esiste una leggenda nera e, come tutte le maledizioni che ti cadono addosso, una volta che ti è affibbiata non te la levi più. Facciamo tuttavia un passo indietro, per meglio intenderci. Anzi, compiamone due. Il primo: quindici anni di stallo nel cosiddetto “processo di pace”, tra israeliani e palestinesi, hanno contribuito enormemente ad ampliare i divari preesistenti. Lo status quo, che non corrisponde alla mancanza di intenzione politica ma alla sua sostanziale inerzialità, la quale si esprime infine con l’unilateralità dei fatti compiuti, non sono estranei a questa dinamica. Ma essa, ed è il secondo passaggio, gli preesiste e trova il suo fondamento in quello che è l’assunto di principio da cui tutto parte, ossia che lo Stato d’Israele e, prima ancora, ciò che l’ha preceduto nel suo progressivo definirsi come entità politica, ossia lo sviluppo dell’insediamento sionista fino al 1948, sia il prodotto di un esercizio di abusivismo storico. L’insediamento prima e lo Stato poi non dovevano nascere, essendo l’uno e l’altro il prodotto di un processo innaturale, che non solo avrebbe leso i diritti delle comunità preesistenti ma artefatto lo stesso processo storico. Posta questa premessa, intesa da chi la professa come assoluta, ovvero indiscutibile nella sua presunta incontrovertibilità sia fattuale che morale, l’unica riparazione possibile consisterebbe nell’estinguere l’equivoco, cancellando l’“entità sionista” dalla faccia della terra. L’equivoco, infatti, riposa nell’esistenza di uno Stato che non avrebbe nessuna motivazione d’essere se non per il suo costituire il prodotto materiale di una congiuntura storica avversa agli arabi e, soprattutto, il risultato dell’azione di forze, più o meno occulte (i denari) o palesi (la violenza armata, il colonialismo, il ricorso alla prevaricazione), ma comunque in sé sleali perché animate da fini non solo di oppressione nei confronti altrui bensì di deliberato dominio, fino alla distruzione fisica della componente araba della regione. Israele sarebbe questa cosa. Non altro. Ed il “sionismo” ne costituirebbe il corollario ideologico, la forma compiuta sul piano culturale, la manifestazione di un’egemonia antica che si rinnova nel corso del tempo. Non tutti, tra quanti si riconoscono nel giudizio sull’abusività d’Israele, ritengono che vi sia una diretta connessione tra ebraismo e sionismo. Semmai, in questo caso, la precisazione è che il secondo costituirebbe una deliberata perversione del primo. Perversione etica, poiché ne userebbe a proprio beneficio la storia secolare, piegandola ai suoi scopi. Rimane tuttavia il fatto che sulla premessa che Israele sia un errore della storia, che si fa poi orrore, sussista una convergenza di giudizi, rafforzatisi in questi ultimi due decenni. I quali si sono fatti particolarmente accesi nel momento in cui, dinanzi al fallimento della trattative con l’Autorità nazionale palestinese, l’ipotesi di due Stati per due popoli ha perso mordente e credibilità un po’ ovunque. Ad essa si è sostituita quella dello scioglimento d’Israele in uno Stato ‘binazionale’, ‘laico’ e ‘progressista’. Suggestione prima asfitticamente rilanciata da certuni, poi ripresa da altri, soprattutto al di fuori del mondo arabo e di quello musulmano e oggi presentata come l’unico orizzonte politico possibile, grazie al quale smascherare anche l’“imbroglio del conflitto”. Non c’è conflitto in atto, c’è occupazione delle terre arabe (e musulmane, si incaricano da subito di aggiungere i movimenti islamisti). L’occupazione non si esercita in Cisgiordania bensì sull’intera “Palestina storica”. Si tratta di una suggestione perlopiù diffusa tra i movimenti politici e i sostenitori della causa palestinese di origine europea e americana, spesso debitori, ancora oggi, anche di prospettive culturali di taglio o suggestione terzomondista. Un circuito culturale, quest’ultimo, ben più complesso e assai meno anacronistico di quanto non si vorrebbe semplicisticamente credere. Nell’iperidentificazione con le vicende dei palestinesi, infatti, si riflette un universo di significati, idealizzazioni ma anche rimandi a simboli ed esperienze che trascendono la specificità del conflitto politico medesimo, per assumere invece il valore di qualcosa che simboleggia una sorta di confronto apocalittico, una specie di duello tra Davide e Golia o, se si preferisce, tra Gog e Magog. Non da ultimo, il simbolismo universale degli oppressi contro gli oppressori. Poiché Israele costituirebbe, nel suo animo profondo, una sorta di teocrazia politica fondata sull’ideologia sionista, che alimenta una concezione razzista o, comunque, suprematista e segregazionista non solo delle relazioni sociali tra israeliani di origine ebraica e il resto della popolazione ma tra ebrei e non ebrei. Non ci sarà mai pace, viene detto, se una ‘entità’ di tale fatta dovesse continuare ad esistere. Essa incorpora in sé il male. L’idea di un superamento d’Israele attraverso il ritorno ad una sorta di un non meglio precisato binazionalismo (etnico, linguistico, culturale, storico o di che altro ordine?) non è una novità, costituendo, nelle sue linee generali, la piattaforma che già un tempo apparteneva ai movimenti palestinesi di lotta armata di radice secolare. Con la sostanziale differenza che in questi ultimi trent’anni la componente islamista li ha quasi integralmente sostituiti, assumendone alcune parole d’ordine ma indirizzandole verso una visione che, perlopiù, travalica l’idea stessa di ‘nazione’ laddove essa coinciderebbe con l’organizzazione politica statale, per riversarla sulla ‘neo-Umma’, sul Califfato e così via. Segnatamente, le difficoltà politiche in cui si trova Hamas a Gaza stanno anche nella sua concezione ancora ‘sovranista’ e territorialista, che stride con la visuale del radicalismo islamista corrente. Dopo di che, torniamo al punto di partenza, la leggenda nera, il cui contenuto, in questo caso, è descritto dalle parole precedenti. Qualcuno si interrogherà quanto di antisemitismo vi sia nel viscerale antisionismo, ossia se quest’ultimo non costituisca altro che il vecchio pregiudizio, riportato a immeritata esistenza, quindi traslato e proiettato su qualcosa di apparentemente più ‘nobile’. Se così si vuole dire, per essere eufemistici: fingere di parlare male di uno Stato per non dovere rivelare da subito dell’avversione che si nutre verso coloro che lo abitano. Basti ricordare le viete ricorrenze del pregiudizio, laddove gli ebrei sono stati abitualmente descritti sia come ‘depredatori’, usi a sottrarre con calcolo e astuzia i beni altrui, che in quanto abusivi, ossia soggetti che occupano una terra che non gli appartiene: nel passato era la terra dei non ebrei, dalla quale dovevano essere scacciati, oggi è lo spazio degli oppressi per eccellenza. Ad occupare quest’ultimo sono per l’appunto i “sionisti”. L’inflazione del ricorso a quest’ultima parola serve a renderla fruibile in ogni genere e tipo di polemica, affinché se ne abbia l’orecchio e la confidenza sufficiente per non fare più caso al suo contenuto storico, accettandone invece qualsiasi sua declinazione in negativo. L’equivalenza tra sionismo e nazismo è, d’altro canto, parte integrante della leggenda nera, affibbiata ad Israele. Una sorta di effetto di traslazione, per il quale diventa inesorabile la sovrapposizione e la commistione tra vittima e carnefice in rapporto di complementarietà che si trasforma in traslazione e sostituzione dei ruoli: dalla ‘tragedia dell’essere vittime delle vittime’ all’’essere vittime di false vittime’, il meccanismo che è all’opera è quello di attestare la contiguità, se non il rispecchiamento, tra le disgrazie del passato e i problemi del presente, affermando che questi ultimi sono la ripetizione delle prime, ma con attori capovolti. L’attacco, va ricordato, non è alle politiche dei governi d’Israele ma al fatto stesso che Israele abbia un governo, qualunque esso sia, e che porti avanti delle politiche. Non è quindi in discussione la qualità di queste bensì il fatto che sussistano. Non a caso si sente affermare che i governi preferibili sono quelli che ‘vanno al sodo’, non fingendo di volere negoziare qualcosa che non può né deve essere negoziato. La terra rubata non è oggetto di scambio; semmai va riconquistata. I più subdoli, certificano polemicamente i detrattori, sono invece proprio quei sionisti che cercano una intesa. Sono, per fare un esempio, gli intellettuali che, nel mentre parlano di pace perpetuano, legittimandola e nobilitandola agli occhi del mondo con il loro linguaggio ammaliante e seducente, l’“occupazione di tutta la Palestina”. Da ciò, tra le altre cose, per certuni l’autentico nocciolo della campagna BDS, boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni, mettendo essa a fuoco il vero problema: Israele è uno Stato criminogeno, che si nasconde dietro a dei paraventi di comodo, potendo confidare sulla complicità internazionale, la protezione americana, la compromissione europea, al limite la stessa paralisi critica degli ‘occidentali’, che nutrono sensi di colpa per il genocidio degli ebrei e avversione verso il mondo dei veri perseguitati. Ed ancora: lo spostamento del fuoco polemico si è concentrato, in questi ultimi anni, sul binomio tra apartheid e genocidio. Di fatto i due termini stanno diventando una coppia binaria, destinata a raccogliere ancora consenso e fortuna per l’apparente linearità con la quale vengono ribaditi. Se da un lato si contesta agli israeliani di attuare una politica segregazionista, dall’altro si afferma che ciò avviene in funzione di un calcolato omicidio di massa, destinato a consumarsi nel corso del tempo, se non altro per via dell’evoluzione dei fatti medesimi. I “muri” di Gaza e Cisgiordania lo comproverebbero: costruire dei giganteschi ghetti, imponendo, a quanti vi sono imprigionati per sempre, l’inedia e l’estinzione. L’enormità del crimine starebbe quindi nel nesso tra segregazione e morte, che scaturirebbe dalla natura intimamente criminale del sionismo. Se così non fosse, d’altro canto, perché allora imputargli responsabilità tanto grandi? Non a caso, in quanto prodotto dell’“imperialismo”, esso ne prosegue le politiche di radice coloniale, dove l’assassinio degli asserviti è un naturale corollario del dominio dell’uomo bianco. Se Israele è il catalizzatore di tutte le peggiori nequizie, i palestinesi assumono le vesti idealizzate di vittime per eccellenza. Inchiodate a questo ruolo, in una specie di proiezione capovolta egli ebrei, una sorta di ibridazione per osmosi, quasi una identificazione degli uni con gli altri. Una visione adamitica e astorica della loro identità, che esiste esclusivamente nell’immaginario di chi la vuole pensare come tale (e che costituisce, tra le altre cose, una proiezione tipica proprio del pensiero coloniale, per il quale solo la collettività elementare, in quanto pura poiché fatta di vittime, è quella senza peccato) ma che agevola enormemente il manicheismo ossessivo di un non pensiero. Poiché il fondamento della leggenda nera sta nella reiterazione maniacale dei medesimi assunti che, per il fatto stesso di essere ripetuti, assumono una vita a se stante, quindi una falsa autoevidenza. Come ogni pregiudizio si è in presenza di un discorso che si autoconvalida, ossia che trova in sé le sue premesse e, pertanto, le coerenti conseguenze. Spostando il coinvolgimento dalla sfera dei fatti a quella delle valutazioni di ordine morale. Implacabili, queste ultime. Attribuire agli israeliani la volontà di commettere un genocidio implica annullare quello che resta della politica. Si tratta non solo di una deliberata falsità ma anche del convincimento che la soluzione di una storica contrapposizione riposi nell’istituzione del ‘governo delle virtù’, dove non c’è alcuna forma di conflitto negoziabile ma solo disintegrazione di ciò che non è omologabile, nel nome di valori superiori, insindacabili, assoluti. Qualcosa di cui i movimenti fondamentalisti sono una concreta manifestazione. Per questo la leggenda nera, piaccia o meno a chi la alimenta, va a parare da quelle parti.
Claudio Vercelli
(6 settembre 2015)