Israele – L’onda di violenza palestinese
Perché non è la Terza intifada
Nuove misure di sicurezza, check-point in diverse zone di Gerusalemme, sei compagnie dell’esercito disposte in varie zone della Capitale. Sono alcuni dei provvedimenti decisi nelle scorse ore dal gabinetto di sicurezza israeliano guidato dal Premier Benjamin Netanyahu in risposta ai molteplici attentati terroristici palestinesi che hanno colpito il paese (nell’immagine il disegno di Guy Morad che riassume le attuali preoccupazioni dei cittadini israeliani). Non c’è per il momento l’intenzione di agire in modo massiccio con la forza in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, come chiedono i partiti alla destra del Premier. Seppur la preoccupazione dei civili israeliani sia molta, vista l’imprevedibilità degli attentati, e la fiducia nelle contromosse disposte da Netanyahu stia diminuendo (in un sondaggio commissionato dalla rete televisiva Arutz 2, il 73 per cento degli intervistati dichiarava di volere Avigdor Lieberman a guidare le azioni antiterrorismo), il leader dell’esecutivo può contare sull’appoggio dell’intelligence e dell’esercito israeliano rispetto alle mosse messe in atto per far fronte a questa nuova ondata di violenza, che le autorità non vogliono definire Terza intifada. La situazione è molto diversa dal passato – in particolare dalla prima e seconda intifada –, affermano da Tsahal, perché in questi anni si è consolidata una collaborazione con le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese. Come riporta il giornalista della Jta Ben Sales, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007, Israele e Anp hanno trovato un nemico comune da combattere e hanno iniziato a cooperare con diverse operazioni contro le cellule del movimento terroristico presenti in Cisgiordania. Una collaborazione che per il momento non è stata sospesa (almeno non del tutto) anche dopo il discorso all’Onu del presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, in cui si mettevano in dubbio gli accordi di Oslo e quindi anche la cooperazione sul fronte della sicurezza. Parole considerate pericolose da Israele che però esclude che il diretto coinvolgimento di Abbas nelle attuali violenze. A smentirlo anche Nitzan Nuriel, a capo del reparto antiterrorismo del Premier Netanyahu, secondo cui presto tornerà la calma: “è una questione di giorni e tutto ciò si fermerà – ha dichiarato alla Jta Nuriel – Non c’è un obiettivo. Sarà dimenticato. La realtà è che abbiamo ondate di terrore. Non ha importanza quali siano le ragioni”. Ondate di terrore che in questo caso non sembrano eterodirette, come spiega su Haaretz Amos Harel: se è vero che l’attacco più grave fino ad ora registrato (quello contro un autobus a Gerusalemme) è stato compiuto da due uomini legati a Hamas, d’altra parte molti attentatori sono giovani palestinesi, senza precedenti e non affiliati ad organizzazioni. “Non c’è nessuno al comando che possa fermare questi attacchi – dichiara Shimon Grossmann, medico dell’organizzazione paramedica Zaka – Chiunque voglia diventare uno shaheed (un martire) prende un coltello e attacca le persone. È una situazione che preoccupa molto i cittadini (israeliani), che non sanno quando tutto questo finirà, cosa lo fermerà. L’ultima volta (la seconda intifada) le persone sapevano di dover stare lontane dagli autobus. Ora non sanno di chi avere paura”.
I timori dei cittadini sono legittimi e comprensibili, afferma Nahum Barnea di Yedioth Ahronoth, ma non per questo la leadership deve farsi suggestionare dalle emozioni né cavalcarle. La domanda, scrive Barnea, è “come ridurre al minimo i danni, come portare nei cuori dei terroristi il rimorso, come convincerli che vivere sia meglio che morire. Abbiamo bisogno di dare loro una buona ragione per vivere”. “A questo proposito, – continua il giornalista – sia Israele sia l’Autorità palestinese hanno fallito. Entrambe hanno offerto alle masse di giovani cresciuti a Gaza e in Cisgiordania una sola opzione: la disperazione. Le cose hanno raggiunto un apice in questi ultimi anni: senza aspettative, senza futuro, senza speranza. Quella palude è un piatto ideale per il terrorismo”. Secondo Yaakov Amridror, ex generale dell’esercito e con un passato in diversi posti chiave nei servizi di sicurezza israeliani, contro le attuali violenze – che non definisce terza intifada – ma soprattutto contro il terrorismo non sono percorribili le strade della diplomazia (vedi quando accaduto dopo gli accordi del 1993 ad Oslo, afferma l’ex generale) così come la costruzione di nuovi insediamenti o l’uso massiccio della forza: “Qualcuno crede davvero che se Israele avesse con centinaia di morti palestinesi starebbe in qualche modo meglio o il terrorismo diminuirebbe Chiunque prende seriamente questa idea – afferma l’ex generale scrivendo dalle colonne di Israel Hayom – è un pericoloso illuso. Centinaia di nuove perdite porrebbero Israele di fronte a una incontrollabile rabbia palestinese e ad ancor più il terrorismo. Contrariamente alle parole incendiarie, Israele non può e non deve lanciare un assalto distruttivo, perché è sia immorale sia inefficace”.
Daniel Reichel
(13 ottobre 2015)