Yitzhak Rabin, una lezione dimenticata
“Yitzhak Rabin rappresenta qualcosa che non è mai accaduto; più che un mito rappresenta la storia di un fallimento. E noi in Israele non ammiriamo i fallimenti”. Ruvido e diretto, il commento dello storico Tom Segev a Pagine Ebraiche apre lo spazio per una riflessione, a vent’anni dal suo assassinio, sull’eredità lasciata dal premier israeliano Yitzhak Rabin e su quale direzione abbia preso la società israeliana da quel 4 novembre 1995, giorno della sua uccisione. “Se allora mi avesse chiesto se nel 2015 ci sarebbe stata la pace con i palestinesi, le avrei detto di sì, le avrei detto che il conflitto sarebbe stato il passato”. Come migliaia di israeliani, Segev ha visto svanire quella speranza e le sue parole oggi sono cariche di disillusione. “A differenza di allora, la maggioranza degli israeliani non crede più nella pace – spiega lo storico, considerato una delle voci più autorevoli d’Israele ma non per questo esente da critiche – Nemmeno Rabin in fondo era così convinto che gli accordi di Oslo sarebbero andati a buon fine. Era scettico, non si fidava di Arafat (il leader palestinese di allora, ndr). Basta vedere il linguaggio del suo corpo durante la famosa stretta di mano a Washington, piena di sospetto”. Al contempo, quella stretta di mano doveva segnare la realizzazione degli accordi, della soluzione dei due Stati per due popoli. Rabin forse era scettico ma, come conferma lo stesso Segev, aveva scommesso sulla possibilità di portare la pace. “Non sappiamo se ci sarebbe riuscito, morì prima di prendere le decisioni necessarie”. Ad assassinarlo un estremista ebreo, Yigal Amir, il cui gesto sconvolse nel profondo la società israeliana. Fu un attacco alle fondamenta della democrazia dello Stato ebraico, maturato in un clima di crescente tensione: mentre migliaia di persone guardavano con fiducia a Rabin, i suoi oppositori lo accusavano di mettere in pericolo Israele, tra questi anche alcuni futuri primi ministri del Paese. Le frange più estreme lo dipinsero come un nazista, ci fu chi ne invocò la morte. E in questa atmosfera si inserì Amir, che premette tre volte il grilletto contro Rabin.
“Abbiamo tutti fallito, si disse dopo quel 4 novembre. Bisognava riunificare la società e così è stato. E a godere di questa ritrovata unità è stata soprattutto la destra ma ci siamo spostati molto lontano in quella direzione – la posizione di Segev – tanto che Netanyahu nel suo governo sembra essere l’uomo più a sinistra”. Secondo lo storico c’è stato uno sdoganamento in questi ultimi vent’anni dell’aggressività sul fronte del discorso pubblico: “Sembra che ora sia legittimo odiare, in particolare gli arabi”. Lo sguardo di Segev si posa solo sulla parte israeliana, perché le sue parole vogliono essere uno spunto per una critica interna alla realtà che meglio conosce. “Quello che mi preoccupa è che le persone in Israele non si fidano più dei politici. Siamo sempre stati famosi per essere cittadini molto partecipi ma adesso c’è uno scollamento rispetto alla classe politica che ci rappresenta. Ci sono meno discussioni, meno confronto e questo è un pericolo per la democrazia”. Anche il discorso sulla morte di Rabin è stato svilito, sostiene l’Israel democracy institute, diventando una battaglia ideologica tra destra e sinistra senza però approfondire le radici del problema, di quegli estremismi che hanno dato prova di essere ancora attivi o nuovamente tali all’interno della società. Forse Rabin non rappresenta “un fallimento” ma, per una democrazia solida e vivace come quella israeliana, un fallimento sarebbe non studiarne la figura, senza mitizzazioni o demonizzazioni, e capire come si sia arrivati a quel 4 novembre 1995.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Novembre 2015