J-Ciak – Rabin si racconta
Le sue immagini, le sue parole. Se vogliamo ricordare Rabin, al di là delle retoriche, non ci resta che tornare lì: ai suoi sorrisi misurati, ai suoi silenzi, ai dubbi e alla speranza di pace.
A guidarci in questo viaggio è il regista israeliano Erez Laufer, che in “Rabin in His Own Words” ci regala un intenso e secco ritratto dello statista ucciso il 4 novembre di vent’anni fa a Tel Aviv.
Premiato come miglior documentario al Festival di Haifa e da ieri in programmazione negli Stati Uniti, il film combina rari materiali d’archivio, girati di famiglia, lettere per comporre un’appassionata autobiografia di Rabin, dall’infanzia alla morte.
L’idea di sentire Yitzhak Rabin raccontarsi vent’anni dopo il suo assassinio a prima vista sembra morbosa. Eppure l’assenza di interpreti e intermediari, è un mezzo di grande impatto per avvicinarci in presa diretta al suo dramma personale e politico. “’Rabin in His Own Words’ – spiega il regista – è un autoritratto, come ascoltare la conversazione di un uomo con se stesso. È la storia di come una persona vede se stessa. Rabin è il personaggio al centro di un film alla luce della storia di cui ha fatto parte, e non solo di quella che lui stesso ha fatto”.
Lungo le tappe salienti della storia d’Israele, seguiamo dunque l’evoluzione di Rabin come lui stesso la intende e la racconta. Ed è con un brivido che ci accostiamo al tema più dolente e attuale, la sua visione del processo di pace. Nel film lo statista ci parla del percorso che lo ha portato a maturare il suo progetto per la coesistenza di israeliani e arabi e delle sue speranze per il futuro: in pratica di tutto ciò che vent’anni fa finirà per decretare la sua morte. Descrive apertamente dei suoi sentimenti nel 1948, dopo l’espulsione degli arabi da Lod e Ramle, in un testo scritto in origine per la sua autobiografia nel 1979, poi censurato e infine pubblicato sul New York Times.
Anche sul grande schermo Rabin si conferma un protagonista complesso, contraddittorio e capace di avvincere. Le immagini ci restituiscono momenti densi di emozione, humor e dolore. Ci riportano alla memoria certe timidezze, la determinazione e le ritrosie, la lealtà e i dubbi, la sua calma e le sue tempestose reazioni.
“Attraverso la sua traiettoria personale e politica, i pensieri e i rapporti con la gente, impariamo qualcosa di noi stessi e dei rivolgimenti che hanno attraversato lo stato e la società israeliana”, spiega Laufer, che in passato è stato co-editor di due documentari nominati all’Oscar, “The War Room” (1993) di Chris Hegedus e D. A. Pennebaker e “My Country, My Country” (2006) di Laura Poitras.
“Oggi, vent’anni e una generazione più tardi – continua – è il momento di riflettere sull’eredità di Rabin. I miti sono fatti dagli uomini. Rabin è molto umano, l’intimità di questo ritratto ci rivela quanto. Come sempre con la storia, ci troviamo a imparare qualcosa del nostro passato, come possiamo imparare per il nostro presente e futuro. Anche se questo film racconta il passato è fatto per il futuro dei nostri figli”.
Daniela Gross
(5 novembre 2015)