Rabin, la notte più lunga
Eytan Haber, stretto collaboratore e portavoce del primo ministro Yitzhak Rabin, presente al suo fianco nel momento del tragico assassinio, sarà a Roma per ricordare la figura dello statista israeliano caduto sotto i colpi di un terrorista appartenente alla destra religiosa ebraica nel corso di una serata organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dall’ambasciata d’Israele in Italia.
Haber parteciperà a un colloquio insieme ai giornalisti Antonio Polito (Corriere della sera) e Anna Momigliano (Rivista Studio), che si svolgerà giovedì 12 novembre alle 20.30 al Centro Ebraico Il Pitigliani (Via dell’Arco de’ Tolomei, 1).
La figura di Haber emerge in tutta la drammatica umanità di quei momenti anche nel memoriale della giornalista Simonetta Della Seta, che pubblichiamo qui integralmente.
Sono in piedi in mezzo a via Weizmann, di fronte a Ichilov, l’ospedale di Tel Aviv. Le auto mi schivano ai due lati, ma non ho paura di essere investita. Mi accorgo di indossare due orecchini scintillanti con un pendaglio di vetro che brilla alla luce dei fari. Sono le dieci di sera. Il mio vestito è sicuramente troppo scollato, e anche aderente, per starmene così al centro di una strada cittadina, nella notte. Ma nulla importa. Perché sto lavorando come un automa da quasi un’ora e perché, tanto, tutti intorno a me, stanotte, sono sotto shock. Continuo a parlare alla telecamera, come se guardassi il conduttore della trasmissione seduto a Roma, o come se vedessi i milioni di spettatori italiani che mi stanno ascoltando, chissà seduti dove. “Il primo ministro è proprio dentro questo ospedale. Lo hanno portato in pochi minuti, ma la prognosi è riservata, stanno cercando di salvarlo”. Mentre spiego, però, compare dietro di me il portavoce del governo israeliano, Eytan Haber. Anche la mia telecamera si gira verso di lui. “Il primo ministro Yitzhak Rabin è deceduto poco fa dopo essere stato colpito a morte poche ore prima da due colpi di pistola sparati da un terrorista…ebreo”.
Haber, uomo di ferro, ha gli occhi gonfi. Attorno tutti scoppiano a piangere. Sento un nodo alla gola ma sono comunque costretta a commentare a caldo la notizia, traducendola in italiano. Siamo in diretta. “Come avete sentito, il primo Ministro di Israele Yitzhak Rabin è appena deceduto qui, alle mie spalle, nell’ospedale Ichilov di Tel Aviv, dove una equipe dei migliori medici di Israele ha cercato invano di salvargli la vita. Rabin è stato colpito cinquanta minuti fa da due proiettili mortali al termine della sua partecipazione alla grande manifestazione in favore della pace, a pochi minuti da qui, nella Piazza re d’Israele, di fronte al palazzo del Comune di Tel Aviv. Pare che a colpirlo sia stato un estremista di estrema destra di nome Ygal Amir, che è stato subito catturato dalla polizia”. A Roma chiedono altri dettagli.
“Prima di essere colpito a morte Rabin aveva pronunciato il suo discorso di fronte alla piazza gremita e cantato poi assieme al pubblico una famosa canzone titolata ‘Canzone della pace’”. Il conduttore incalza: “Pare che in piazza stasera ci fossero oltre 150.000 persone”. “Sì, anche noi eravamo tra quelli”, rispondo. Sono stata in piazza un’ora con l’operatore a riprendere l’imponente manifestazione e poi, mentre Rabin finiva il suo discorso, sono salita da un amico diplomatico che abita a pochi metri da là e ha organizzato una festa a casa sua. La notizia di Rabin mi ha raggiunta lì e da allora sono in diretta, o radiofonica o televisiva, per strada.
Con l’operatore torniamo alla piazza, al luogo del delitto. Dopo l’annuncio ufficiale della morte, grappoli di ragazzi si stringono tra di loro. Le lacrime rigano i volti, le mani si cercano, in tanti si piegano ad accendere piccole candele della memoria. Nel luogo che ho lasciato con le bandiere, le canzoni di speranza, gli inni alla pace, ora stagna un’atmosfera funebre e vibrano le prime corde di un trauma collettivo.
Con il microfono cerco di captare le reazioni a caldo. Vecchi e giovani, donne e uomini, ragazzi, stranieri. Rispondono muti, scioccati. Una ragazza mi dice: “Ciò che è accaduto è più grande di noi”.
In un angolo, sotto le scale che portano al grande palco del municipio vedo apparire un gruppo di poliziotti. Stanno ricostruendo a caldo l’attacco, esattamente sui passi di Amir, il giovane israeliano con la kippah, la testa coperta, che ha sparato per uccidere il premier.
“Aveva la mano ferma sulla pistola, ben nascosta sotto il maglione”, raccontano. Qualcuno fa riferimento a un filmato ripreso da una telecamera nascosta. Lo hanno già visionato, imparato a memoria. ”Nessuno gli ha sbarrato la strada. Deve aver pensato, Dio come è facile! Tre, cinque passi in tutto e il suo obiettivo è sotto tiro. Rabin sta scendendo le scale. Amir gli si avvicina a meno di un metro. Poi gli scarica le pallottole nel corpo facendosi forza inveendo ‘Sei un cane, grida, un bastardo, abbi vergogna!’.”
Un altro poliziotto aggiunge: “Gli siamo saltati addosso, ma era tardi. Aveva lo sguardo di ghiaccio questo ventisettenne sconosciuto e ci ripeteva in macchina: ’Ho agito da solo. Non arrestate nessuno’. Ygal Amir è uno studente di legge all’Università di Bar Ilan, una delle più prestigiose del paese. Si è iscritto dopo il servizio militare. Studia diligentemente assieme ai suoi coetanei: Hagal Shlomi, Hila, Gal, Avishai. Frequentano un campus all’americana; discutono con professori e lettori in visita da tutto il mondo. A lui, pelle scura da ebreo di origine yemenita, piacciono così tanto i riccioli biondi di Hila che le confida il segreto: ucciderà il premier. Qualcuno li ha sentiti parlare, a poche ore dal delitto la frase gira e scandalizza e non lascia pace. Come è possibile in questo bagno di odio e sangue senza fine del Medio Oriente che un ebreo odi tanto un altro ebreo da decidere di ammazzarlo. Un terzo poliziotto dice ora che Amir ha ossessionato la sua fidanzata, confessandole di averne parlato perfino con un rabbino, un maestro, e che questo gli avrebbe detto: sì, si può fare. Un ebreo ortodosso può eliminarlo, anzi glielo ordina Dio perché Rabin è diventato nemico del suo stesso popolo. Per il Talmud, gli avrebbe detto quel rabbino, Rabin può essere considerato un rodér uno che non esita a perseguitare e far uccidere i suoi fratelli, quindi può essere perseguitato e ucciso a sua volta.
Ygal Amir ripeteva nella macchina ai poliziotti: ‘Rabin ha rovinato Israele mettendosi d’accordo con l’assassino Arafat.’
Si dice che Hila, sconvolta, lo abbia lasciato. Poi si sia rivolta a Shlomi, un altro compagno e ad amici. Discutono se è vero. Hila sa che Shlomi ha buoni compagni nei servizi segreti. Come avvertirli senza che Ygal lo venga a sapere?
Una mattina di alcuni mesi prima Shlomi incontra Dror, che è nella sicurezza e vuota il sacco. Ma non fa nomi. Descrive uno studente magro, dai capelli scurissimi. Dror promette di passare l’informazione. Ma a chi?
Avishai Raviv è il capo del gruppo. Ha voluto che tutti giurassero un segreto, sulla Bibbia per giunta. Odio e morte ai fautori della pace. Dopo la firma di Oslo bisognava agire. Se non noi per noi? Se non ora quando? Essere militanti di destra non bastava. Militanza diventa la parola d’ordine. Si studia meno. Si arruolano nuove forze per Eyal, sigla per ‘gruppo ebraico combattente’. Una sera, nel centro di Gerusalemme, Avishai sventola fiero, di fronte alle telecamere della televisione israeliana, un fotomontaggio di Rabin vestito da generale SS. Un insulto al primo ministro che sconvolge Israele. Avishai fa entrare nel gruppo anche qualche donna. La più determinata è Margalit, faccia d’angelo, occhi a mandorla, lunga treccia bionda. L’arrestano subito per complicità con l’assassino. Non vuole neppure alzarsi in piedi durante il suono straziante della sirena che taglia l’aria di tutto il paese per commemorare il leader ucciso. “Siete tutti belli ma troppo pieni di odio”, commenta il poliziotto che la porta via a forza. Un odio che non si placa e che è pieno di segreti.
La tv israeliana rivela già che Avishai era stipendiato dallo Shin Beth, l’intelligence interno dello stato ebraico. Agente? Talpa? Informatore? Che ruolo aveva? Che gioco ha fatto? Perché non ha avvisato i servizi? O forse li ha avvisati e nessuno si è mosso?
Sui mitici 007 israeliani calano pesanti interrogativi mentre Rabin non è ancora sepolto. In una palazzina blindata di Gerusalemme viene perfino convocato il signor K, il capo stesso dei servizi. Subito. Non si perda tempo. K non si è ancora dimesso, come invece ha fatto immediatamente il responsabile per la protezione personale delle alte personalità. K. è specializzato proprio in movimenti di estrema destra. Parla ai magistrati. Resta dentro per quattro ore. Tutta la notte. Chi sapeva? Chi ha taciuto? È stato lo Shin Beth a infiltrarsi nei gruppi di destra o sono stati gli estremisti a infiltrasti nello Shin Beth? Che ruolo hanno avuto i rabbini ultra ortodossi? Per Israele è uno shock scoprire un complotto. Ma è ancora più pericoloso svelare i segreti, e forse gli errori, della sua intelligence semi infallibile: una istituzione, per giunta, indispensabile alla stessa sopravvivenza di Israele.
Sotto casa di Leah Rabin, nel quartiere bene di Ramat Aviv, si sono radunati capannelli di amici e conoscenti. Salgono e scendono le scale della palazzina bianca, dalla quale il sabato mattina il generale Yitzhak Rabin scendeva in perfetta tenuta da tennis per farsi una buona partita con un amico. Chi non l’ha incrociato con sottobraccio la racchetta lo ricorda almeno una volta accendersi, appena uscito dal portone, la sua inevitabile sigaretta. Non un israeliano sorridente, anzi piuttosto burbero nei modi, ma sempre attento a scambiare una battuta rapida con un bambino o un saluto di mano con un vicino. E negli occhi, uno sprazzo di segreto umorismo, un po’ timido e un po’ militare. Da gente dura e riservata che comunque non può ridere a bocca larga.
Un linguaggio del corpo impacciato, nonostante la divisa o la tenuta sportiva, o perfino quel vestito con giacca e cravatta, i pantaloni sempre un po’ troppo corti. Come quel 13 settembre sul prato della Casa Bianca in cui Arafat dandogli la mano, gli ha preso tutto il braccio facendoglielo dondolare come se fosse uscito dal suo corpo, come se Rabin non volesse mostrare al mondo che fosse proprio il braccio suo a toccare quello dell’ex nemico Arafat.
Ora Arafat è stato fatto accomodare nella poltrona preferita di Rabin, in casa sua, nel suo salotto. E per rispetto si è perfino levato il vecchio cappellaccio da guerrigliero e improvvisamente calvo, consola Leah. Leah che stringe mani, che si fa accarezzare le spalle dai figli, che abbraccia i nipoti quando le porgono acqua e caffè, e le sue medicine per il cuore. Leah che parla solo di lui, mentre vorrebbe solo parlare ancora con lui. Con il suo soldato personale, con il suo compagno di una vita, con il padre dei suoi figli, non con il leader coraggioso di Israele ammazzato da un altro ebreo.
“Non ci avresti creduto, ripete, non hai mai pensato che una cosa del genere sarebbe potuta accadere. Non ci hai semmai pensato per un attimo”.
“Ti racconterei senza fine di quel che è successo dopo: di come ci siamo separati da te ormai morto; di come siamo tornati in questa casa senza di te; la casa che amavi tanto e dalla quale eravamo usciti insieme solo poche ore prima. Ora siamo qui senza di te”.
Leah è sorpresa mentre le annunciano l’arrivo di personalità dai quattro angoli della terra. Dal ‘vicino di casa’ re Hussein di Giordania, con il quale aveva dichiarato la pace un mese prima, al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Rappresentanti di ottanta nazioni sono arrivati a rendergli omaggio. La sua bara, avvolta nella bandiera israeliana, di fronte alla quale passa tutto il mondo, in silenzio, o singhiozzando, posando una mano, o pronunciando una preghiera. Milioni di persone salutano il suo ultimo viaggio. In un clima irreale, in una Israele in stato di shock che non dorme e non si desta, che non capisce e non ragiona. Vengono dette belle parole, frasi buone, coraggiose, consolanti. Ma lui non è più. E la storia di questo piccolo Stato è cambiata per sempre. Vengono a migliaia e continuano a venire. Un intero paese piange, si ferma e piange. Entra in lutto stretto, familiare, intimo e collettivo e piange senza fine, sentendosi perso.
Leah non si raccapezza, e parla ancora a lui: “Yitzhak, vengono alla tua tomba ogni ora e ti ricoprono di fiori, accendono candele in tua memoria, ti lasciano lettere. A casa noi e tua sorella Rachel riceviamo migliaia di telegrammi. Migliaia di persone vengono a consolarci e a consolarsi, per darti in qualche modo l’ultimo addio. Vengono tutti: ebrei, musulmani, cristiani, drusi e circassi; bambini, giovani, vecchi. Migliaia di lettere da giovani, da ogni angolo del paese. Yitzhak ci credi? Ti prego credimi: è successo qualcosa che questo paese non aveva mai visto, che forse il mondo intero non aveva mai visto. I proiettili che ti hanno ucciso sono volati al di la dei confini del nostro Stato e nel Medio Oriente e in tutta la terra piangono la tua morte”.
Leah ripete di trovare la sua forza grazie a lui. “Perché per così tanti anni ho vissuto all’ombra della tua forza eccezionale. E questo amore che arriva fino a noi è tuo, e bisogna rispondergli con grande riconoscenza”.
Nessuno da quegli spari in piazza, sa contare più le ore e i minuti. Nessuno sa che giorno si è fatto, che storia stiamo vivendo e come. Le mamme accarezzano i bambini sognando quella carezza confortante su di loro. I giovani si abbracciano tra loro per non farsi abbracciare, come vorrebbero, dai genitori. Perfino ai soldati che portano la bara scendono le lacrime.
Dice ancora Leah, parlando nella piazza dove lo hanno ucciso: “Voglio dirti Yitzhak che questa riconoscenza la meritano anche le tue guardie del corpo. Piangono e io cerco di rincuorarli, e dico loro: Yitzhak per tutta la sua carriera pubblica ha riposto in voi una fiducia illimitata. Non ha mai pensato per un attimo che sarebbe potuto succedergli qualcosa, perché voi eravate con lui. E giuro che mai proveremo risentimento verso di voi per quanto è successo. È successo, e voi avete fatto quanto era possibile. Sempre manterremo la nostra fiducia. Siete ciascuno così eccezionale, così caro, così dedito al proprio dovere”.
Poi alza la testa per guardare in faccia il pubblico: ”Voglio credere in queste ore che la tragedia tremenda che è accaduta a te Yitzhak, a noi, a tutti noi, il prezzo insostenibile, carissimo, che paghiamo, non sia quello di un sacrificio gratuito. Perché da questo incubo, voglio sperare, ci siamo svegliati in un mondo migliore, un mondo che si fidava così tanto di te, per il quale rappresentavi il bene e la giustizia e per il quale resti la voce della pace”.
Poi Leah si rivolge a Shimon Peres, compagno di una vita di Rabin. “D’istinto, senza potermi più consultare con lui, ora parlo con te Shimon. Ora sei rimasto solo. Ma noi ti aiuteremo. Noi tutti abbiamo a cuore la pace, siamo con te e ti sosterremo. Sì, mi rivolgo a te: continua a condurre il popolo di Israele verso la pace, sulla via e nello spirito di Yitzhak”.
Simonetta Della Seta
(6 novembre 2015)