Eitan Haber, l’uomo dietro Rabin

Eitan_HaberEitan Haber, portavoce dell’ex Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (1922-1995), sarà protagonista di una serata, organizzata dall’Unione dele Comunità Ebraiche Italiane, al Centro Ebraico Pitigliani di Roma, giovedì 12 novembre (ore 20.30). Un’occasione per discutere e riflettere, a vent’anni di distanza dall’assassinio del premier, in compagnia dei giornalisti Antonio Polito (Corriere della sera) e Anna Momigliano (Rivista Studio).

Toccò a lui, vent’anni fa, il compito più duro: comunicare che dopo una breve agonia il Primo ministro d’Israele Yitzhak Rabin era morto, assassinato dal fanatico di destra Yigal Amir, uno studente venticinquenne di Herzliya.
Con il volto tirato, consapevole della lunga notte che lo attendeva, Eitan Haber, portavoce e braccio destro del leader laburista, dichiarava: “Il governo di Israele annuncia con costernazione, enorme tristezza e profondo dolore, la morte del Primo ministro e ministro della Difesa Yitzhak Rabin, assassinato stasera a Tel Aviv. Il governo si riunirà tra un’ora per compiangerlo, sia la sua memoria di benedizione”.
eitan haberLa sua camicia a righe e la montatura degli occhiali dietro cui si nascondevano gli occhi persi nel vuoto rimarranno impressi nella coscienza d’Israele come uno dei simboli del trauma della Nazione, così come la sua elegia funebre: “Yitzhak, questo è il discorso finale. Non ce ne saranno più altri. Per una generazione, per più di 35 anni, sei stato la mia guida, il mio leader e come un secondo padre”. Un discorso accorato per Haber, che di discorsi ne aveva scritti molti e pronunciati pochi, che si concluse drammaticamente mostrando il foglio insanguinato sul quale c’era scritto il testo di Shir laShalom, la canzone per la pace cantata da Rabin poco prima di essere colpito da tre colpi di pistola letali: “Yitzhak – disse – lo sai avevi mille qualità, molti pregi, ma cantare non era proprio il tuo pezzo forte. Avevi biascicato qualche parola della canzone e poi avevi piegato il foglio in quattro parti uguali e te lo eri messo in tasca”.
Molti hanno detto che Eitan Haber rappresentò il corrispettivo di Walter Cronkite, il giornalista televisivo che per primo annunciò la morte di John Fitzgerald Kennedy. Entrambi furono gli ambasciatori che si presero la briga di scioccare un Paese intero. Ma la frattura fu forse più profonda: Haber scriveva i testi pronunciati da Rabin, coordinava i suoi viaggi, compresi quelli per ritirare il Nobel a Stoccolma e per firmare gli Accordi di Oslo a Washington. Monitorava l’opinione pubblica e ha convissuto per anni con un amaro senso di colpa: l’inevitabile si poteva evitare?
Nato nel 1940 a Tel Aviv, Eitan Haber iniziò da subito a coltivare la passione per il giornalismo collaborando da giovanissimo per l’edizione dedicata ai bambini di HaTzofe e poi per Herut, entrambi due giornali di stampo sionista e conservatore. Durante la leva militare divenne corrispondente di BaMahane (Nella base), il settimanale dell’esercito israeliano. Proprio in quel periodo conobbe Yitzhak Rabin, all’epoca comandante delle truppe del Nord, e strinse con lui una forte amicizia. Terminato il servizio militare, iniziò a lavorare per il popolare quotidiano Yedioth Ahronot, con il quale collabora tutt’ora come opinionista. Nel 1985, quando Rabin divenne ministro della Difesa, ottenne il ruolo di consigliere per il rapporto con i media e, una volta eletto Primo ministro nel 1992, Rabin lo nominò suo portavoce. La specializzazione in affari militari e diplomatici, lo ha portato inoltre a firmare alcuni libri tra cui uno sul massacro alle Olimpiadi di Monaco, uno sull’Operazione Entebbe e uno dedicato alla figura dell’ex Primo ministro israeliano Menachem Begin.
“Penso a Yitzhak Rabin tutti i giorni, tutto il giorno”, confida Haber in una delle sue interviste, spiegando: “Rabin credeva nell’esercito. Credeva nello Stato d’Israele. Era un soldato della pace. Conosceva il prezzo della guerra”. E soprattutto non avrebbe mai creduto che sarebbe stato ucciso da un suo connazionale: “Se pensava che lo avrebbe ucciso un ebreo? No, mai”, conferma. Nel commemorare i vent’anni dalla sua scomparsa, Haber ha rievocato su Yedioth Ahronot il clima di tensione che precedette quel 4 novembre del 1995: “Dovremmo confessare, due decenni dopo, quanto ci sentiamo in colpa per quello che è successo. Vivevamo in un’isola di calma in mezzo al mare in tempesta. Le voci dall’esterno erano bloccate dalle finestre blindate, chi protestava sembrava inoffensivo dentro la macchina del premier”. Ma, continua, l’eco più violento arrivava via posta con scatole delle scarpe che contenevano dei gatti morti, lettere di minaccia e simboli nazisti. Tutte cose che Rabin non vedeva con i suoi occhi ma gli venivano raccontati dal suo ufficio stampa. “In quanto responsabile della sua immagine, ho cercato di non separarlo dalla sua gente e di dimostrare ai suoi oppositori ciò che più gli premeva: ovvero che non era spaventato da loro”.
Ma se davvero l’assassinio fosse stato evitato, sarebbe realmente cambiato qualcosa nella storia d’Israele? Per Haber la storia si fa senza i se e senza i ma e allo stesso tempo specifica che gli Accordi di Oslo non hanno portato alla pace sperata perché fu chiaro a tutti che i problemi erano molto più profondi e radicati: “ci sarebbero voluti decenni di educazione per far cambiare il corso degli eventi”. Allo stesso tempo, essi servirono però a far aprire le porte del dialogo tra Israele e paesi prima assai distanti come l’Oman e il Marocco. “Non ho creduto nemmeno per un secondo che Arafat fosse un partner – ha dichiato Haber in una intervista di due anni fa, in occasione dei vent’anni dall’accordo – e non sono sicuro che Rabin lo credesse. Ma sono sicuro, e lo so perché ne abbiamo parlato. che Rabin credeva che la pace sarebbe stata possbile solo se fatta con tipi come lui. Non posso dire se gli piacesse o meno ma posso confermare che alla fine dei suoi giorni i rapporti tra di loro erano piuttosto buoni”.
E dopo aver contribuito a scrivere la Storia, o perlomeno i discorsi che fecero la Storia, Haber è tornato a fare da osservatore della situazione israeliana lanciando moniti e passando da posizioni centriste ad altre più ardite: attraverso il suo spazio su Yedioth Ahronot ha messo in guardia sul pericolo dato dal raffreddamento dei rapporti con l’America (America che, ha ribadito pù volte, è ancora il paese da cui dipendono le sorti d’Israele) e ha commentato le ultime violenze perpetrate dai palestinesi, spesso adolescenti, spiegando come il sentimento che li porti ad agire non nasca né dalle parole del presidente palestinese Abbas né tantomeno dalla difesa della Spianata delle Moschee quanto piuttosto dal senso di umiliazione che sentono di vivere ogni giorno. Riguardo alle caratteristiche che dovrebbe avere un leader mondiale ha infine scritto: “Vogliamo un leader perplesso, che temporeggi (specialmente prima di un’operazione che potrebbe causare vittime). Vogliamo un leader che esiti 66 volte prima di prendere una decisione che potrebbe accorciare la vita di un civile o di un soldato. Vogliamo un leader che rubi la cioccolata dalla scatoletta d’argento anche se dovrebbe essere solo per gli ospiti. Per farla breve vogliamo un leader umano. Ne abbiamo abbastanza di ipocriti o di robot”.

Rachel Silvera twitter @rsilveramoked

(8 novembre 2015)