Qui Tel Aviv – “La nostra Resistenza è vivere”
Venerdì alle 14.40 ero a casa da un’ora, dopo una mattinata di commissioni e un caffè con un’amica. Mi apprestavo a rispondere a email e messaggi di buon anno arrivati in nottata, con radio Galgalaatz in sottofondo, a volume basso. Per puro caso ho prestato ascolto all’annunciatrice che con voce calma invitava tutti ad allontanarsi dlala zona Dizengoff / Ben Gurion (a pochi isolati da dove vivo) per via di una sparatoria. Nel giro di pochi secondi sono iniziate a passare ambulanze. Qualche minuto dopo già si sentivano gli elicotteri. Poco dopo le tre, i tre canali di notizie della televisione erano già in diretta. Il luogo effettivo dell’attentato non era all’angolo con Ben Gurion, ma fra Gordon e Frishman. Subito ho iniziato a fare il conto mentale di tutti gli amici che vivono in zona: per prima ho chiamato l’amica che vive nella prima parallela a Dizengoff, esattamente alle spalle del pub “Simta” – era a casa con la bambina piccola e lei e il marito avevano sentito gli spari. Sembrava tranquilla, tutto sommato. Vedeva dalla finestra poliziotti che setacciavano le case intorno, entravano e uscivano dai retri degli edifci. Intanto, uno ad uno, quasi tutti gli amici scrivevano su Facebook che stavano bene. Il suono delle sirene si calmava, ma in aria gli elicotteri non smettevano di girare, e chi vive qui sa che non è buon segno. Se loro sono in cielo, è per segnalare alla polizia a terra dover dirigersi per trovare i fuggitivi. All’inizio di shabbat ancora non si sapeva, terrorismo o atto criminale, ma i corrispondenti dal luogo della sparatoria cominciavano a parlare di attentato.
Nonostante le rassicurazioni della polizia venerdi pomeriggio, ho deciso di non uscire sabato per andare al tempio. Il freddo, la pioggia a sprazzi e la stanchezza in un periodo di superlavoro hanno aiutato la decisione. Sabato sera avevo previsto un aperitivo con amiche. Abbiamo deciso di vederci a casa di una di loro e non in un locale, ma non abbiamo cancellato. E così mi sono trovata ad attraversare proprio quelle strade che venerdì erano state il centro dell’attentato e delle prime ricerche del terrorista. Anche per via della pioggia, Tel Aviv era molto meno affollata che in un qualsiasi altro sabato sera. Ma c’era gente nei locali, e c’era gente per strada, anche vicinissimo al luogo ancora protetto dalla polizia dove venerdì sono morti due giovani presi a caso, per caso in linea con la traiettoria degli spari.
In serata il sindaco Ron Huldai ha rilasciato una dichiarazione dura, dalla quale traspariva la sua rabbia, per dire che domenica le scuole sono aperte e i telavivesi possono sentirsi al sicuro. Netanyahu ha tenuto una breve conferenza stampa dal pub colpito, in cui non ha per nulla tranquillizzato i cittadini, preferendo richiamare alla fedeltà ad Israele i cittadini arabo-palestinesi. Nessuno ha avuto una parola anche solo comprensiva per il padre del terrorista, arabo israeliano di Wadi Hara, volontario in polizia, che ha denunciato con incredula mestizia il proprio figlio, avendolo riconosciuto nelle riprese della telecamera di sicurezza del negozio dal quale ha sparato contro il pub. Senza la sua telefonata, probabilmente non solo lo starebbero ancora cercando (senza fortuna, almeno fino a sabato sera), ma neanche si saprebbe chi è l’attentatore.
Intanto Tel Aviv riprendela sua vita, e la cosa non dovrebbe stupire nessuno. È stato così perfino durante la seconda intifada, con gli autobus che esplodevano, è perfettamente logico che sia così anche adesso. Per chi – come me – allora non c’era, è un po’ surreale, vedere i locali aperti e non vuoti a 30 ore dall’attentato. Ma anche questa è resistenza. Se smettiamo di vivere le nostre vite liberamente, hanno vinto i terroristi. Domenica si riparte, chi al lavoro chi a scuola, nella speranza che il terrorista venga catturato presto e non faccia ulteriori danni.
Daniela Fubini
(3 gennaio 2016)