…fanatismo

Nella mia vita ho fatto a pugni solamente una volta. È avvenuto alla Me’arat Hamachpelàh, il sito delle tombe dei Padri e delle Madri a Hebron, durante la preghiera pomeridiana (Minchàh), uno dei momenti culminanti di Yom Kippur, il giorno del digiuno di espiazione ebraico. Eravamo negli anni ’80 e io ero di turno con una compagnia di soldati riservisti di Zahal a fare la guardia allo storico luogo, in una grande sala che a lungo era stata straordinariamente condivisa da ebrei e musulmani nelle loro preghiere quotidiane. Una semplice divisoria nel luogo sacro alle due religioni era formata da un cordone sostenuto da paletti e demarcava lo spazio assegnato a ciascuna, i cui fedeli, generalmente in orari diversi, si alternavano nelle preghiere. Quel giorno però, e non era la prima volta, l’orario della preghiera coincideva, e tutto quello che si richiedeva ai due gruppi era di rispettare il silenzio o perlomeno di limitarsi a un discreto sussurro. Il compito dei soldati era di mantenere l’ordine e di vegliare alla separazione pacifica delle due parti, appunto mediante il cordone e i paletti. A un certo punto alcuni elementi chiaramente identificabili con la parte ebraica incominciavano a inveire contro la parte musulmana sostenendo che quest’ultima non rispettava abbastanza il silenzio. Prontamente giungeva una replica dall’altra parte, e da parte ebraica allora qualcuno scagliava degli oggetti che venivano subito rilanciati, seguiva un lancio di seggiole pieghevoli da parte di facinorosi ebrei, prontamente rilanciate dall’altra parte. Mentre si scatenava una rissa generale che coinvolgeva decine di persone, con in mezzo i militari nel tentativo di separare le parti, una di queste sedie di legno ripiegate volava e mi colpiva alla testa. A questo punto era inevitabile una mia reazione diretta contro un tipo paonazzo, ben più grosso di me, tra i più accesi provocatori da parte ebraica che inveiva contro i militari di Zahal. Con un buon movimento gli facevo perdere l’equilibrio e lui finiva a terra mentre la sua kippàh volava lontano: kippàh di un sedicente ebreo, invaso dall’odio contro Israele, cui non importava nulla della profanazione del luogo sacro proprio nel momento culminante della preghiera, pur di affermare con la forza la sua supremazia in barba all’ordine costituito. Anni dopo Baruch Goldstein, che non escludo potesse essere uno dei partecipanti alla rissa, avrebbe ucciso 29 musulmani nello stesso edificio delle Tombe dei Padri e delle Madri, e l’arrangiamento di convivenza nella preghiera a Hebron sarebbe stato abolito.
Mi è venuto in mente l’episodio della scazzottatura di trent’anni fa nell’ascoltare dell’arresto delle persone accusate di aver dato fuoco a una casa nel villaggio palestinese di Duma causando la morte di tre persone. L’abbondante documentazione che accompagna l’arresto dei giovani imputati rivela come si sia evoluto e quanta strada abbia percorso il processo di presa di possesso della legge da parte di individui e di gruppi anarchici e terroristi che negano l’autorità costituita dello Stato d’Israele e aspirano a costruire un potere alternativo in Giudea e Samaria. Le carte sequestrate parlano apertamente di distruggere lo stato sionista e di instaurare al suo posto una monarchia messianica. Inerente alla proposta è anche il piano di riedificare e riaprire al culto il Santuario ebraico sulla spianata del Tempio, il cui sito primario è peraltro oggi occupato da quella che è nota come la Moschea di Omar (la cupola d’oro), e in posizione defilata sul lato meridionale dalla ben più importante Moschea Al Aqsa (la cupola d’argento). I seguaci di queste teorie fanno parte di una rete di giovani deliranti oggi spessi definite no’ar hageva’oth – i ragazzi delle colline. Molti di costoro sono ex-studenti che hanno abbandonato gli studi liceali o la yeshivah, quelli che in altri tempi sarebbero stati definiti teppisti o magari asinelli. La tendenza di molti osservatori, e non solo dei loro difensori, è di minimizzare la sindrome, riducendola a poche decine di ragazzi emarginati. In realtà le cose sono più complesse.
Pochi mesi dopo la guerra dei sei giorni, il 22 settembre 1967, veniva pubblicato sulla stampa israeliana un proclama a favore di Èretz Israèl Hashlemàh (l’intera Terra di Israele) cui aderivano numerose personalità della cultura e della politica fra cui il premio Nobel per la letteratura Shai Agnòn: “La vittoria dell’esercito di difesa israeliano nella Guerra dei Sei Giorni ha posto il Popolo ebraico in un’epoca nuova e fatale. L’intera Terra d’Israele è oggi nelle mani del Popolo ebraico, e così come noi non abbiamo il diritto di rinunciare allo Stato d’Israele, così ci viene comandato di mantenere ciò che abbiamo ricevuto dalle Sue mani – la Terra d’Israele.” Significative le parole “dalle Sue mani” che definivano una narrativa trascendentale, ben al di là della spiegazione convenzionale che la guerra dei sei giorni era stata vinta dall’esercito israeliano, ossia dal popolo di Israele. Gli autori del manifesto sapevano con certezza, forse dopo un colloquio personale, che la vittoria, e dunque l’occupazione del territorio e il suo recupero dalle mani del nemico, proveniva da ben altra fonte.
Nel 1974, dopo la guerra del Kippur, veniva fondato il Gush Emuním (Blocco della fede), l’organizzazione che avrebbe svolto un ruolo determinante nello sviluppare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza. Le cose erano allora meno complesse di oggi. Si trattava di creare una sempre crescente presenza ebraica nei territori amministrati a partire dal 1967, soprattutto cercando di costruire su terreni di proprietà governativa o ceduti da proprietari arabi a imprenditori ebrei. Tutto ciò avveniva in un’epoca in cui erano al potere in Israele governi laburisti. E c’è un particolare anagrafico da non trascurare: nel 1967 la popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza ammontava a 955.000 persone, più 66.000 a Gerusalemme. Oggi, in seguito al rapido incremento naturale il loro numero complessivo è aumentato a 4.105.000, più 312.000 a Gerusalemme.
Nel corso del tempo la presenza ebraica in Cisgiordania è cresciuta dai pochi individui iniziali alle odierne poco meno di 400.000 persone. Oltre ad alcuni importanti nuovi insediamenti urbani attentamente pianificati, in un numero crescente di casi piccoli insediamenti sono stati creati su terreni non regolarmente acquistati o senza permessi, e sono pertanto stati dichiarati illegali dalle stesse autorità israeliane. Ciò non ne ha impedito la costante proliferazione. In diverse occasioni i tribunali israeliani hanno ordinato lo smantellamento di edifici di abitazione o di interi insediamenti costruiti illegalmente. Quando la legge è stata applicata e gli ordini sono stati eseguiti, immediatamente dopo gli stessi siti sono stati spesso ricostruiti. Sul piano dell’edilizia si è sviluppato dunque un processo di progressiva anarchia, a partire da decisioni prese in piena sovranità da parte del governo verso un crescente numero di iniziative prese in violazione alle disposizioni governative, ma sempre in definitiva tacitamente avallate. Un fenomeno simile di radicalizzazione è avvenuto sul piano della scuola, dell’istruzione, del rabbinato e dell’ideologia.
Gli iniziatori di Èretz Israèl Hashlemàh e di Gush Emuním erano gli alunni delle scuole religiose di stato e rappresentavano una corrente profondamente ancorata al movimento sionista e alla costruzione dello stato d’Israele attraverso gli strumenti offerti dallo stato costituzionale. Fra gli allievi di questi, e fra gli allievi degli allievi, si sviluppavano invece tendenze sempre più autonomiste e contestatrici dell’ordine costituito, che sono arrivate oggi fino alla sua negazione totale e alle azioni incendiarie volte alla sua distruzione.
Ma quante sono le persone che oggi contestano lo Stato d’Israele fino a considerarne illegittima l’esistenza e a voler sostituirlo con una monarchia ebraica? Un’indagine svolta alcuni anni or sono fra la popolazione residente in Cisgiordania circa la possibilità di un eventuale sgombero da parte di Israele, aveva rivelato che la maggioranza, in nome dell’interesse nazionale, avrebbe accettato di trasferirsi in un’altra località in Israele in cambio di un adeguato indennizzo; un secondo consistente gruppo avrebbe protestato violentemente contro la decisione ma alla fine avrebbe accettato con dolore la decisione; un terzo gruppo anch’esso piuttosto consistente avrebbe respinto la decisione e avrebbe dovuto essere rimosso con la forza da parte delle forze millitari israeliane (similmente a quanto avvenuto negli insediamenti del Gush Katíf a Gaza nel 2005); e infine un gruppo pari a circa l’uno per cento degli intervistati affermava che avrebbe opposto resistenza armata di fronte all’esercito israeliano. Sulla base dei dati attuali di circa 400.000 persone residenti in Cisgiordania, all’infuori di Gerusalemme, l’uno per cento sarebbe l’equivalente di 4.000 persone, ossia circa pari a una divisione armata dell’esercito israeliano. Riduciamo pure dei tre quarti questa stima e restiamo con un migliaio di persone, una brigata disposta a tutto, anche alla violenza contro Zahal. Una cosa è certa: non si tratta di 40-50 ragazzi sbandati, come qualcuno vorrebbe far credere, ma di un nucleo ben più numeroso che gode dell’appoggio di personaggi che si auto rappresentano come autorità rabbiniche, di uomini politici che basano le loro fortune sull’estremismo, e di frange più vaste nella popolazione civile.
L’odierno terrorismo ebraico a dire il vero ha un notevole precedente. Dal 1979 al 1984 alcuni attivisti del Gush Emuním avevano formato la Machtèret (resistenza segreta) ebraica, un’organizzazione terroristica autrice di numerosi delitti nei confronti di arabi palestinesi. Finalmente i membri del gruppo venivano arrestati e processati con l’accusa di violazione del decreto di prevenzione antiterrorismo del 1948. In un patteggiamento in tribunale l’accusa di appartenenza a un’organizzazione terroristica veniva annullata nei confronti di 10 dei 27 arrestati. La maggior parte finiva per servire brevi periodi di detenzione, e i capi venivano graziati e rilasciati nel 1990. Questa improvvida lenienza avrebbe lasciato una buona eredità per il futuro.
Ho avuto modo di conoscere da vicino i capi storici di questi movimenti. Posso dire con certezza che una parte di queste figure erano e sono persone disturbate mentalmente, rapite dall’esaltazione mistica e dall’ubriachezza che deriva da una lettura parossistica di testi esistenti, e poi dalla propria scrittura di nuovi testi sempre più eccitati e remoti dalla legalità dello stato ebraico. Altri sono dei cinici faccendieri politici per i quali l’interesse particolare e a volte anche personale prevale apertamente sull’interesse collettivo. I seguaci più giovani e mentalmente più deboli, sobillati da questi sedicenti capi spirituali, riscoprono riti di magia nera, reinterpretano antichi testi stravolgendone i contenuti, i contesti e le intenzioni, e scrivono ex-novo libelli che incitano all’uccisione del non ebreo o dell’ebreo giudicato traditore. Esempi sono i libri Torat Hamelech (La Legge del Re) o Baruch Haghéver (Benedetto l’Uomo), in celebrazione del già menzionato Baruch Goldstein, in cui si costruiscono le supposte giustificazioni giuridico-teologiche nei confronti di primitive forme di vendetta postuma o preventiva. I tribunali solo in misura minore hanno condannato gli autori per istigazione al razzismo. E poi secondo il meccanismo ben noto dell’apprendista stregone le cose sfuggono a ogni controllo.
Emblematico è l’esempio di un esaltato provocatore che risponde al nome di Baruch Marzel, residente della zona di Hebron, un rozzo mestatore politico che negli anni ’80 era oggetto di inseguimenti purtroppo non abbastanza convinti da parte delle truppe israeliane, e che è andato avanti per la sua strada acquistando legittimità, finché alle elezioni per la Knesset del 2015 solo per un pugno di voti non è stato eletto deputato. Dunque, un gruppettaro marginale anti-establishment che diventa quasi parte integrante del medesimo establishment istituzionale. Marzel è uno degli architetti del vilipendio contro lo Stato d’Israele. Pensando a lui notiamo un perverso meccanismo simile a quello dell’affettare un salame. Esiste chi, e sono pochi per fortuna, è disposto a commettere un crimine. Segue chi si oppone a commettere un crimine ma lo approva. Segue chi non approva ma tollera. Segue chi non tollera ma capisce. Segue chi non capisce ma non critica. Segue chi critica ma non fa nulla per evitare. Così si arriva al crimine. Cosí è stato per l’uccisione di Itzhak Rabin. Da un singolo assassino per passaggi successivi si può arrivare a una vasta schiera di più o meno distratti spettatori. Non illudiamoci: la responsabilità è condivisa da tutti.
Il meccanismo che ha portato alla situazione sintetizzata dagli ultini arresti ha dunque una lunga storia, e la responsabilità si divide equamente fra i governi laburisti del primo decennio successivo alla guerra dei sei giorni, e poi sporadicamente negli anni ’90, seguiti dai molti governi guidati dal Licud fino all’attuale, o dai governi di unità nazionale Licud-Laburista o ispirati dal più centrista Kadima nelle fasi intermedie. Il lassismo delle autorità che avrebbero dovuto imporre disciplina e soprattutto l’applicazione della legge dello Stato d’Israele nei decenni passati, fa sí che oggi ci si debba confrontare con un problema che è aumentato senza controlli e causa drammatici danni all’immagine del paese, oltre che vittime innocenti nella popolazione. Cosicché i sostenitori o anche i membri attivi di questi movimenti contestatori-messianici si sono radicati sul territorio e oggi rappresentano una componente inseparabile della cultura politica dello Stato d’Israele. Essi operano a partire di formazioni oggi dichiarate illegali come il movimento Kach (Cosí) fondato da Meir Kahana, ma anche dall’interno di partiti di governo come il Licud o Habàyit Hayehudí, e anche da certi membri dello stesso governo Netanyahu. Non vi è dubbio che gli organi preposti al funzionamento della democrazia israeliana, come il sistema giudiziario, l’esercito, la polizia, i servizi, il controllore di stato, svolgano correttamente i loro compiti istituzionali volti al mantenimento della legalità nel paese. Permangono seri dubbi quando il discorso si trasferisce sul piano della politica parlamentare e governativa che non può eludere una certa corresponsabilità con gli ultimi gravi avvenimenti se non da parte dell’istituzione, per lo meno da parte di determinati singoli.
Ben inteso tutto questo viene detto qui con grande amarezza da parte di chi vorrebbe che la società ebraica e democratica dello Stato d’Israele fungesse da esempio per le nazioni, al di sopra di ogni critica in termini locali e internazionali. È facile richiamare a un confronto con i modi di procedere delle autorità palestinesi o dei governi e dei movimenti rivoluzionari delle società islamiche che circondano Israele in Medio Oriente. Quanto di peggio avviene in Israele è solitamente comparabile con quanto di meglio fanno la maggioranza di questi vicini geografici e geo-politici. Ma questo non è un possibile o legittimo metro di confronto. Non è per allinearsi alla barbarie degli altri che Israele è sorto.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(7 gennaio 2016)