Tel Aviv – La testimonianza
“L’immagine della solidarietà”
Ieri sera, dopo una giornata di lavoro a Tel Aviv, ho ricevuto un messaggio di un’amica: “Ci incontriamo al Simta bar a Dizengoff. Ha riaperto. Vieni!”
Se avessi ricevuto Il messaggio (che è simile a tanti altri che ho sul cellulare) una settimana fa, immagino che lo avrei semplicemente cancellato, rispondendo: “Sono un po’ stanco, ci vediamo domani”.
Per chi non la conoscesse, Dizengoff è una delle strade principali a Tel Aviv, è un bel posto per prendere un aperitivo o una birra con amici. Esiste perfino un verbo speciale nello slang dei giovani per dire di andare a Dizengoff: “leizdangef”.
Sono stato lì tante volte. Questa volta però era diverso e il messaggio aveva un significato diverso.
Mi spiego: il Simta bar era chiuso da venerdì scorso; ma, attenzione, non era chiuso per ferie o per lavori in corso. Era chiuso perché venerdì scorso un arabo con cittadinanza israeliana ha sparato alla gente che era lì e ha ucciso due persone: Shimi e Alon, sia il loro ricordo di benedizione.
Così, nonostante la pigrizia, ho deciso di andare.
Camminando, sono passato dalla stazione della linea 5 dell’autobus (sempre a Dizengoff), e per la prima volta ho notato qualcosa che non avevo mai notato prima: una pietra.
Avvicinandomi alla pietra ho capito che era un memoriale e ho letto quello che c’era scritto: erano nomi. Cercando su internet ho letto che proprio in quel punto un terrorista palestinese, nel 1994, aveva fatto saltare in aria un autobus. Nel attentato sono morte 23 persone e ne sono state ferite 104.
Camminando poi verso il Dizengoff center, mi sembrava come di camminare con la storia. Un’altra pietra, un altro memoriale, un altro attentato, altri nomi. Si trattava ora di quello del 1996, nel quale sono state uccise 13 persone e ferite 125.
Quando sono finalmente arrivato nel luogo dell’attentato più recente, cioè al Simta bar, mi sono sorpreso: c’era tanta gente! Non saprei dire un numero, ma sicuramente più di quando c’è una festa. Per terra erano sparse ancora più candele di quante ce ne fossero il giorno prima e al centro c’era un tavolo con due foto di due giovani ragazzi. Ma non era una pubblicità di un party e loro non erano due dj. Erano Shimi e Alon, le due giovani vittime dell’attentato.
La gente era seduta nel bar, che era tornato in funzione, e cantavano delle canzoni israeliane tradizionali, quelle che si chiamano “Shirei Eretz Israel”.
Ad uno dei tavoli, c’era anche una persona che sembrava conosciuta: era Ron Huldai, il sindaco d Tel Aviv. La gente parlava e sembrava come di essere in una Shivà moderna – una Shivà Tel Aviv style.
Parlando con una ragazza, mi ha raccontato: “A me non piace tanto la birra, ma questa volta sono venuta. Solo perché era aperto e solo per incoraggiarli”.
Tornando a casa ho riflettuto tanto su questa sera.
L’immagine di questa serata, di giovani che si riuniscono per parlare e cantare, con candele, fiori e foto era simile all’immagine del raduno dopo il ritrovamento dei corpi di Eyal, Gilad e Naftali, i tre ragazzi rapiti e uccisi nel 2014, e dopo l’assassinio di Shira Banki, la ragazza uccisa al gay pride di Gerusalemme e all’immagine del raduno dei ragazzi dopo l’assassino di Rabin.
In ognuno di questi si trattava di un tipo di terrorismo diverso, ma la risposta è sempre la stessa: la vita continua.
Chi vive In Israele conosce bene le immagini degli attentati e dei memoriali, questo è sicuro. Ma chi vive in Israele conosce anche l’immagine delle luci: l’immagine delle candele, dei progetti in memoria delle vittime. L’immagine della solidarietà israeliana.
Michael Sierra
(7 gennaio 2016)