Periscopio – Indifferenza
Nel mio intervento pubblicato sul notiziario quotidiano Pagine Ebraiche 24 della settimana scorsa, ho svolto qualche amara considerazione relativa all’ennesimo atto di discriminazione compiuto ai danni di cittadini israeliani (si trattava, stavolta, dei surfisti esclusi dalla competizione internazionale in Malesia), nell’indifferenza pressoché totale delle autorità sportive e dell’opinione pubblica, ormai completamente assuefatta a qualsiasi tipo di prepotenza e sopruso ai danni dei cittadini di Israele, considerati cose del tutto normali, non degne neanche di commento. Vorrei oggi prendere spunto da questo penoso episodio (che, com’è noto, non è che un esempio tra gli innumerevoli disponibili) per ribadire e argomentare quella che è da sempre una mia profonda convinzione, ossia che il conflitto israelo-palestinese potrà essere superato soltanto il giorno che il mondo smetterà di chiamarlo in questo modo, e capirà che esso non è che il precipitato di un ben più ampio contrasto, che non vede in campo Israele contro Palestina, ma, da una parte, coloro che riconoscono, senza alcuna ambiguità, il sacrosanto diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nella propria patria millenaria, e, dall’altra, tutti quelli che questo diritto, in modo più o meno aperto ed esplicito, negano. Un riconoscimento o una negazione, che, a loro volta, si inscrivono all’interno della più profonda questione del complesso rapporto tra il “resto del mondo” e il popolo ebraico.
Certo, interpretare il problema in chiave di contesa israelo-palestinese è molto facile, molto comodo, perché pare offrire delle spiegazioni chiare ed evidenti di ciò che succede: le colonie, gli insediamenti, i diritti negati… Uno contro uno, un occupante e un occupato, ed è ovvio a chi debbano andare simpatia e solidarietà, e a chi il contrario. Ma questa rappresentazione semplificata e riduttiva del conflitto è del tutto irreale, non solo perché elude la domanda ovvia di come mai il conflitto ci fosse tale e quale (anzi, ancora più violento) prima del 1967, quando non c’era nessuna occupazione e nessuna colonia, ma anche perché non spiega il motivo della diffusione sistematica dell’odio anti-israeliano in così larga parte del mondo arabo, quasi sempre schierato compatto e unito contro il nemico sionista (anche quando, come di questi tempi, appare diviso al suo interno dalle più radicali e aspre contrapposizioni).
Solidarietà araba, si dirà.
E va bene. Gli arabi, divisi su tutto, su questo vanno d’accordo.
Ma come mai il più irriducibile nemico di Israele è uno stato che arabo non è, e che agli arabi è da sempre storicamente contrapposto, come l’Iran? E come mai un Paese lontanissimo dal Medio Oriente, come la Malesia, considererebbe una profanazione se il suo sacro suolo fosse calpestato da due adolescenti israeliani?
Solidarietà islamica, ci si sentirà rispondere.
E va bene. Gli islamici, anche loro divisi su tutto, su questo, anche loro, vanno d’accordo.
Ma come mai in prima fila nel fronte antisionista figurano anche dei Paesi, come il Venezuela, che non sono né arabi né musulmani? E come mai le Nazioni Unite, in tema di Medio Oriente, si pronunciano sempre nello stesso modo?
Solidarietà mondiale con le vittime delle ingiustizie, potrebbe essere una risposta.
E va bene. Il mondo, diviso su tutto, su questo è unito.
E qui, dato che sugli altri pianeti non ci siamo ancora arrivati, il dialogo finisce.
Ma, mi rendo conto, si tratta di un dialogo capzioso, astruso, pretestuoso.
Molto meglio continuare a parlare del ‘derby’ Israele-Palestina, e continuare a fare il tifo per uno dei due. È tutto più chiaro, più comprensibile, più facile.
Francesco Lucrezi, storico
(13 gennaio 2016)