melamed – Shoah, Memoria senza cerimonie

160506 shevaMel yom hashoahSono state migliaia le persone, soprattutto giovani, a prendere parte alla “Marcia dei vivi”, la manifestazione che in occasione di Yom HaShoah (27 Nissan per il calendario ebraico che quest’anno coincideva con il 5 maggio in quello civile) commemora le vittime del genocidio ebraico percorrendo a piedi il tratto di tre chilometri da Auschwitz a Birkenau. “Un tributo silenzioso a tutte le vittime”, si legge sul sito che raccoglie le testimonianze delle celebrazione avviata nel 1988. “Voglio che loro, i giovani, sappiano che l’odio uccide” ha affermato durante la marcia l’ottantunenne Feiga Francis Schmidt Libman, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti e che ad Auschwitz ha perso parte della sua famiglia. “Ho un motto – ha spiegato Libman ai giornalisti di Afp – Se hai odio nel tuo cuore, non avrai spazio per l’amore. Vorrei che ognuno di noi fosse gentile con l’altro, perché non importa se preghi in una sinagoga, in una chiesa o in una moschea. Siamo tutti uguali”. “Ho paura che l’Europa e probabilmente altre parti del mondo non abbiamo imparato molto dalla Shoah”, l’amaro commento alla stampa di Shmuel Rosenman, presidente del comitato che organizza la marcia, chiedendo ai governi di mettere in pratiche leggi più dure “contro l’antisemitismo, il razzismo e il fascismo”.
Nelle 27 edizioni precedenti della marcia, hanno partecipato oltre 200mila persone, per lo più ragazzi, provenienti da 52 paesi diversi. Il viaggio in genere porta i ragazzi prima in Polonia e poi in Israele e durante la camminata silenziosa sono molte le bandiere israeliane che compaiono sulle spalle di chi cammina. “La partecipazione alla marcia dei vivi rafforza l’identità ebraica e sionista”, si legge nel sito. Non tutti però sono convinti che questo sia il metodo giusto per educare le nuove generazioni alla Memoria della Shoah. “Sono contraria a questo viaggio. Non mi ci identifico perché è fatto per alzare bandiere israeliane e fare dichiarazioni, meno per interiorizzare e capire”, ha affermato la direttrice del Museo dei Combattenti dei Ghetti del kibbutz Lohamei Hagetaot (fondato nel 1949 e che significa appunto, kibbutz dei combattenti dei ghetti) Anat Livne. Per la Livne, intervistata da Haaretz, si tratta “più di una manifestazione superficiale di forza e meno di un’identificazione con le vittime e con la loro perdita”. Consapevole di essere in minoranza, la direttrice sottolinea che il suo punto di vista nasce da “30 anni di lavoro sulla storia, l’educazione e l’insegnamento della Shoah. Parlo perché ho esaminato attentamente la situazione”. Livne in realtà non è stata la sola a criticare quel tipo di manifestazione rappresentata dalla Marcia dei vivi. “Non si brandiscono bandiere nei cimiteri, non si organizzano esibizioni aeree sopra i cimiteri. In un cimitero – scriveva Yehuda Bauer, docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, consulente di Yad Vashem, considerato un’autorità in tema di Shoah a livello mondiale – si cammina in punta di piedi e si piange. Il volo sopra Auschwitz è stato un’azione infantile, vanesia, decisamente superflua, che mette solo in evidenza la superficialità di coloro che pensano che la Memoria della Shoah vada preservata con questi mezzi. Per il futuro d’Israele, questo è il tipo di simbolo sbagliato”. Un messaggio su cui torna anche la Livne secondo cui nelle “cerimonie ufficiali e nei raduni di massa le persone si connettono solo a livello emotivo. Mi sembra che la natura eccessivamente cerimoniosa negli ultimi anni abbia creato una sensazione per cui non saremmo autorizzati a pensare criticamente alla Shoah e alle sue lezioni”. Eppure per Yom HaShoah la Livne stessa ha curato un grande commemorazione a cui hanno partecipato 10mila persone, tra cui sopravvissuti e i loro discendenti e il Presidente d’Israele Reuven Rivlin. La cerimonia ha segnato il 20esimo anniversario Yad Layeled Children’s Museum, istituzione sempre del kibbutz Lohamei Hagetaot, dedicato al ricordo dei bambini. “Non vedrete grande preoccupazione per la sofferenza o vittimismo – spiegava la direttrice alla vigilia dell’appuntamento- ma piuttosto un attenzione a come le persone si confrontavano con le difficoltà durante la Shoah”. In ogni caso per Livne il modello migliore è l’incontro a piccoli gruppi con i sopravvissuti, un rapporto più intimo e che permette di fare riflessioni su uno dei più grandi drammi dell’umanità.
“Sono consapevole del fatto che l’esperienza della cerimonia è importante per molte persone, ma come educatore penso che non sia la cosa principale. – la riflessione della direttrice – La Memoria deve essere trasmessa in modi diversi, più significativi. È difficile non emozionarsi alla luce delle fiaccole e durante la cerimonia, e io capisco anche che queste immagini rimangono a lungo nella mente di chi le osserva. Ma cosa rimarrà per le generazioni future? Ma cosa accadrà dopo che l’ultimo dei sopravvissuti ci lascerà? Solo i film e i libri rimarranno come modellatori di Memoria e di identificazione. Non ci saranno più le testimonianze di prima mano. E la memoria della Shoah rischia di essere sfruttata solo per manipolazioni emotive. Ecco perché dobbiamo ripensare Yom Ha Shoah, il più presto possibile”.

Daniel Reichel

(6 maggio 2016)