integrazione – Il costo di una stretta di mano
Le opzioni sono due. O stringeranno la mano ai docenti. Oppure dovranno pagare una multa salata. Anzi, salatissima.
Continua a far discutere l’opinione pubblica, nazionale e internazionale, il caso dei due adolescenti siriani di 14 e 16 anni che in Svizzera si sono visti sospendere la pratica di naturalizzazione perché alla fine di una lezione si erano rifiutati di stringere la mano agli insegnanti di sesso femminile. “La nostra religione ci proibisce di toccare una donna” la motivazione addotta dai due ragazzi, figli di un imam che predica a Basilea noto per le sue posizioni radicali e che ha ottenuto l’asilo politico nel 2011.
Fino a che punto può spingersi la tutela della libertà di culto? Esiste un limite? E se sì, qual è?
Queste le domande attorno cui si è sviluppato un significativo dibattito che ha chiamato in causa istituzioni, esperti di diritto, leader religiosi, insegnanti e formatori. Fino all’ultimo provvedimento, richiesto dall’istituto scolastico e realizzato dal Dipartimento cantonale dell’educazione, che ha messo i ragazzi e la loro famiglia davanti a un bivio. Perché, viene spiegato, la parità uomo-donna prevale “ampiamente” su ogni altra considerazione. E quindi, in sintesi: o accetti le nostre regole, oppure ne paghi le conseguenze.
Molte le voci a levarsi nelle scorse settimane. Tra cui quella della consigliera federale Simonetta Sommaruga, che durante una trasmissione televisiva ha sottolineato come il comportamento tenuto dai due giovani sia “assolutamente inaccettabile” e “incompatibile” con le pratiche di integrazione di un paese moderno e progredito quale è la Svizzera.
Sempre la stampa locale ha reso noto come una delle figlie dell’imam sia nel frattempo fuggita dalla famiglia e si sia rifugiata in un centro di accoglienza. La ragazza, minorenne, è seguita con attenzione e costanza dall’Autorità di protezione dei minori e degli adulti. Sarebbe infatti scappata per non subire lo stesso destino di due sorelle maggiori, sposate con la forza in Siria.
E non è finita qui.
“Arrivato dalla Siria nel 2001 – scrive il settimanale ticinese Il Caffè a proposito del padre – il 54enne ha inoltrato una richiesta di naturalizzazione per sé e per i suoi due ragazzi, essendo gli altri figli nel frattempo già rientrati in patria. Prima di giungere in Svizzera, avrebbe trascorso un periodo in Libano, dove si sarebbe formato in una scuola coranica. La sua vicinanza ai Fratelli musulmani gli avrebbe anche permesso di spostarsi con facilità in diversi Paesi arabi, fra cui Dubai”.
Per le autorità svizzere, quindi, il fatto che gli altri figli siano rientrati in Siria e lì abbiano continuato a seguire degli studi superiori, dimostrerebbe che non fanno parte della popolazione perseguitata. Cosa fare allora? Esiste un problema aperto o si tratta di un singolo caso? In questi giorni la grande democrazia elvetica non smette di interrogarsi su un tema che potrebbe essere decisivo per il suo futuro.
La questione è rilevante, pochi hanno dubbi, anche se c’è chi cerca di tenerla sottotraccia. Come l’imam di Lugano, Samir Radouan Jelassi, che ha dichiarato: “Sono situazioni che possono essere risolte senza creare clamori mediatici”. Secondo l’imam si tratterebbe infatti di “un fatto isolato che non può diventare il problema maggiore dei 450mila cittadini musulmani in Svizzera”.
Adam Smulevich
(3 giugno 2016)