Un ebreo italiano tra gli ebrei iraniani
Il divieto più assurdo? La cancellazione della parola “Israele” dai testi di preghiera, rigorosamente tradotti in farsi. L’ordine arriva dai palazzi governativi e quindi non si può fare altrimenti. Le conseguenze possono essere molto gravi. Non certo un’esperienza comune quella vissuta da Yehoshua, manager in campo farmaceutico che vive tra Milano, il Monferrato, la Francia e la Danimarca. Alcuni giorni (per lavoro) in Iran. Per chi nel cognome tradisce una evidente origine ebraica, non proprio un fatto di tutti i giorni. Un’occasione più unica che rara per conoscere luoghi inaccessibili a molti, rendersi conto della realtà con i propri occhi e tastare con mano le molte complessità di un paese su cui mai come adesso sono puntati gli occhi del mondo. E una visita che più di altre ha lasciato il segno: un pomeriggio in preghiera assieme agli ebrei di Teheran, in una delle sinagoghe della capitale. “Era la prima volta che andavo in Iran. Non nascondo che alla vigilia fossi un po’ turbato per il viaggio che mi accingevo a compiere. Gli strali degli ayatollah, il ricordo di Ahmadinejad, la pena capitale per i gay, i concorsi negazionisti, le parole di odio nei confronti di Israele come tratto comune alle diverse leadership più o meno ‘moderate’. Ecco, diciamo che ho visitato paesi più liberali e amichevoli” dice al giornale dell’ebraismo italiano Yehoshua, subito impressionato dal livello di controllo dei Guardiani della Rivoluzione. Un controllo evidente appena messo piede a terra: donne velate, clima pesante. Il pomeriggio nella sinagoga Yusef Abad, la più grande di Teheran, meravigliosamente ornata di mosaici e iscrizioni orientali, è stato ricco di stimoli. E ha portato alla luce almeno un paradosso. Perché mentre Israele continua ad essere il nemico per antonomasia del governo, “l’entità sionista” cui possono essere dedicati soltanto pensieri bellicosi, lo stesso (almeno apparentemente) non si può dire dei rapporti con la comunità ebraica cittadina e nazionale. “La cosa curiosa è che tutte le persone con cui ho parlato sono orgogliose della loro identità ebraico-iraniana. Hanno un rappresentante al Parlamento, servono l’esercito, rifiutano offerte lavorative dall’estero. Ho potuto constatare che è possibile muoversi in spazi pubblici con la kippah senza essere disturbati o correre particolare rischi” dice Yehoshua. Purtroppo le note positive finiscono qui. Perché l’odio viscerale della classe dirigente nei confronti di Israele finisce comunque per ripercuotersi sulla vita comunitaria. L’esempio citato ne è una prova piuttosto evidente. “Ogni libro o testo in ebraico deve essere tradotto. E non può esistere nelle sue pagine alcun riferimento allo Stato degli ebrei, il cui nome va sostituito con parole o espressioni alternative. Come Eretz ad esempio” racconta Yehoshua, che ha scattato alcune fotografie di questo straordinario incontro.
Quel pomeriggio resta l’esperienza più forte all’interno di giornate molto intense e istruttive. “La gente si è rivelata accogliente, ospitale, generosa. Decisamente migliore di chi lo guida e della casta degli ayatollah che tutto controlla e tutto dispone. Mi auguro che prima o poi il loro Medioevo abbia fine. Per gli iraniani – conclude Yehoshua – ma anche per tutti noi”.
Adam Smulevich – Pagine Ebraiche
(7 giugno 2016)