Europa League – Per l’Inter
il Leicester di Israele
Anche l’Hapoel Beer Sheva nel cammino dell’Inter nella prossima Europa League. Nell’urna che ha decretato oggi gli accoppiamenti del gironcino i nerazzurri hanno infatti pescato i campioni di Israele. Campioni un po’ a sorpresa, tanto da meritarsi l’appellativo di “Leicester del deserto”. Scopriamo qualcosa di più sul loro conto.
“Cosa si fa in questi casi? Cosa si fa? Non lo so, noi non siamo abituati. Di colpo arrivi a un traguardo che proprio non pensavi possibile e non sai come gestire le emozioni”. Come Ofir sono migliaia i tifosi dell’Hapoel Beersheva che tra commozione e incredulità hanno festeggiato la sorprendente vittoria della loro squadra che lo scorso maggio, dopo quarant’anni di astinenza, ha conquistato il campionato israeliano di calcio. Il terzo della sua storia. “Sportivamente parlando, perderlo sarebbe stata una tragedia. Per noi, per l’intera città” spiega l’allenatore Barak Bachar, arrivato sulla panchina del Beer Sheva proprio quest’anno e portato in trionfo dopo aver regalato ai suoi tifosi la gioia più grande. E pensare che tre anni fa l’Hapoel Beer Sheva si era salvato all’ultima giornata, riuscendo per il rotto della cuffia ad evitare la retrocessione. Una sorta di Leicester – la squadra inglese diventata la favola della Premier League – in versione israeliana.
In realtà l’Hapoel già la scorsa stagione si era rialzato, arrivando terzo e costruendo gradualmente una squadra competitiva. “Quest’anno abbiamo avuto più fame degli altri – sottolinea Bachar – e siamo pronti per il prossimo anno. La sfida sarà soprattutto l’Europa”.
“Sarà difficile, avremo bisogno di concentrazione e anche un po’ di fortuna” afferma l’allenatore, consapevole che oltreconfine le squadre israeliane, soprattutto negli ultimi anni, non hanno raccolto grandi risultati. E sul palcoscenico europeo tornerà utile il lavoro del mental coach Eitan Azaria “che ha svolto un lavoro prezioso in questa stagione”, spiega Bachar, “aiutandomi nel leggere le partite e mantenere saldi i nervi”.
Nervi che ai sedicimila del Turner Stadium di Beer Sheva stavano per saltare quando all’ultima e decisiva partita di campionato dopo soli cinque minuti avevano visto la loro squadra andare sotto. Con una sconfitta e la contemporanea vittoria del Maccabi Tel Aviv il sogno si sarebbe infranto. E basta farsi un giro su youtube e vedere i video di quella partita per rendersi conto di quanto la tensione fosse palpabile, con tifosi sull’orlo delle lacrime. Quarant’anni passati biblicamente a vagare nel deserto (Beer Sheva è la più grande città del deserto del Negev, nel sud del Paese), la speranza concreta di uscirne e poi un gol rischia di ricacciarti in- dietro nella terra di nessuno. “La settimana prima dell’ultima partita è stata la più difficile. C’era un’aspettativa enorme intorno a noi e molta pressione”. E qui spie- gati i primi minuti contro il Bene Sakhin, con i giocatori inizialmente sulle gambe per la paura di vincere. Ma, come ha ripetuto più volte l’allenatore dell’Hapoel, questo era l’anno dei suoi ragazzi, e così la paura si è trasformata in entusiasmo e la sconfitta in vittoria.
Tra i protagonisti della stagione, Elyaniv Barda, capocannoniere della squadra, nato e cresciuto a Beer Sheva. Uno che, come dicono con ironia i tifosi, per lo più sefarditi, dell’Hapoel (anche noti come gamalim, cammelli, e legati alla periferia d’Israele più popolare) “guarda sempre il lato meridionale della vita” (così recita uno degli striscioni che capeggia al Turner Stadium). Anche se l’uscita dal deserto è arrivata grazie a qualcuno da nord, qualcuno proveniente da quella Tel Aviv ricca e diametralmente opposta alla Beer Sheva delle periferie: la proprietaria dell’Hapoel Alona Barkat, unica donna alla guida di una squadra israeliana. Barkat, cognata del sindaco di Gerusalemme, ha acquistato nel 2007 la squadra (che all’epoca languiva nella seconda divisione israeliana). Per lei quello del Beer Sheva è un progetto che va oltre il calcio, ma ha un significato sociale, per questo il club ha avviato negli anni un progetto che ha coinvolto oltre 600 giovani, tra cui anche le realtà considerate più emarginate, come i beduini e gli etiopi. “È una gioia e un orgoglio vedere tutti qui a Beer Sheva festeggiare insieme – ha dichiarato Barkat dopo la vittoria – uniti da un solo colore”. Il rosso dell’Hapoel.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche luglio 2016
(26 agosto 2016)