La sindrome del selfie
In uno splendido editoriale di Boris Sandler intitolato ־מגפֿה„סעלפֿי‟ (La sindrome del selfie) che appare sul Forward, la prestigiosa testata newyorkese in yiddish, di questo 30 settembre, si dice che il comportamento di chi scatta ripetutamente foto a se stesso, oggi così diffuso, un tempo non lontano da noi sarebbe stato appropriato solo a un “meshuggene” (balordo).
Il giornalista che per 18 anni consecutivi ha occupato la mitica scrivania di Abrahan Kahn ed è riuscito con un durissimo lavoro a riavvicinare le giovani generazioni al giornalismo in yiddish, non si accontenta di un ritratto impietoso del degrado dei costumi, della maleducazione, della volgarità dilagante. Ha anche l’ambizione di inquadrare questa devastazione sociale nell’analisi sociologica e nella prospettiva culturale e artistica. Nel solco di quel terribile proverbio in yiddish che per esprimere la cecità nei confronti del mondo circostante e degli altri esseri umani che ci circondano usa le parole “solo io nelle mie scarpe”, Sandler getta nuova luce anche sullo splendido ritratto di Narciso attribuito al Caravaggio e custodito dalla Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini, a Roma.
Sottolineando la triste fine che toccò secondo il mito al giovane innamorato della propria figura, Sandler spiega come il problema di una concentrazione patologica sulla propria persona non sia certo una novità, ma oggi, con le enormi potenzialità che i social network offrono a chi sguazza nella demenza digitale, sia divenuta una sindrome di massa.
Il problema è che i social network, e in particolare Facebook, non solo allargano a dismisura gli effetti di ogni stupidaggine illudendo cinicamente le masse di esercitare un ruolo attivo nel mondo della comunicazione, ma sollecitano la creazione frenetica di materiale generato appositamente per riempire gli enormi spazi dedicati all’autogratificazione.
Resterebbe da domandarsi come mai una grande testata ebraica dedichi tanto spazio a un problema certo esistente nella società, ma apparentemente non specifico e certo non esclusivo del mondo ebraico.
Il motivo è però molto chiaro. La demenza digitale costituisce una minaccia e un degrado per tutti, ma è un pericolo in particolare per il mondo ebraico, per Israele, e per le altre minoranze testimoni di diversità e di cultura alternative. E’ un pericolo per la difesa della Memoria. E’ una minaccia perché genera sacche di ignoranza dove attecchisce facilmente il complottismo, l’odio e il sospetto, l’antisemitismo.
In tutto questo, fa capire Sanders, certamente la generazione degli adulti non si è dimostrata capace di insegnare ai giovani il rispetto per la propria immagine e il valore della modestia. Ma ha fallito, e gravemente, anche il mondo della scuola. Che subisce le mode senza discuterle e di questi fenomeni devastanti sembra sopportare solo le conseguenze, ma non riesce neanche lontanamente a risvegliare quella presa di coscienza e quella corretta percezione dei problemi e delle persone di cui si avvertirebbe un urgente bisogno e che dovrebbe essere la base di ogni lavoro serio sul fronte educativo.
Guido Vitale
(30 settembre 2016)