Claudio Gatti firma l’inchiesta dell’anno
Elena Ferrante è un’ebrea italiana:
Anita Raja, la germanista napoletana

Napoletana, figlia di una sopravvissuta alla Shoah di origini polacche. Ebrea italiana. Una inchiesta giornalistica magistrale firmata sul Domenicale del Sole 24 ore da uno dei più brillanti giornalisti investigativi italiani, Claudio Gatti, e in uscita contemporaneamente sul quotidiano più prestigioso quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine e sul periodico culturale New York Review of Books, rivela l’identità che si cela dietro allo pseudonimo di Elena Ferrante. Cade così il velo su una delle autrici più rispettate e vendute al mondo e il giallo che ha tenuto per anni con il fiato sospeso il mondo della cultura internazionale ha ora una soluzione.
La letterata e germanista Anita Raja, traduttrice di riferimento dell’autrice berlinese Christa Wolf e di tanti altri classici della letteratura tedesca, moglie dello scrittore Domenico Starnone, ebrea italiana figlia di una sopravvissuta alla Shoah di origini polacche, Frida Petzenbaum, detta Goldi.
A poche ore dalla solennità del Capodanno ebraico il mondo della cultura in tutto il mondo entra in fibrillazione per comprendere meglio la vita e le origini di questa letterata schiva e raffinatissima che stando all’inchiesta avrebbe mosso uno dei maggiori casi letterari di questi ultimi decenni.
Nata a Napoli nel 1953, Anita Raja vive a Roma. Laureata in lettere, ha tradotto dal tedesco gran parte dell’opera di Christa Wolf: “Sotto i tigli” (1986), “Cassandra” (1984), “Premesse a Cassandra” (1984), “Guasto” (1987), “Trama d’infanzia” (1992), “Recita estiva” (1989), “Medea” (1997), “Che cosa resta” (1990), “Congedo dai fantasmi” (1995), “In carne ed ossa” (2002), “Un giorno all’anno” (2006), “Con uno sguardo diverso” (2008), tutti per le edizioni e/o. Oltre a “Il processo” di Franz Kafka (Feltrinelli 2000), ha tradotto poesie e testi di Ingeborg Bachmann, Hermann Hesse, Ilse Aichinger, Irmtraud Morgner, Sarah Kirsch, Christoph Hein, Hanz Magnus Enzensberger, Bertolt Brecht per antologie e riviste. Ha pubblicato articoli e saggi sulla letteratura italiana e tedesca e sui problemi relativi alla traduzione. Nel 2007 ha vinto il Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria, assegnato dal ministero degli Esteri tedesco e dall’Incaricato del Governo federale per la Cultura e i media in collaborazione col Goethe Institut.

EUROPA, USA, AUSTRALIA…
Il successo planetario avvolto dal segreto

Questa inchiesta sul mistero di Elena Ferrante, realizzata dal giornalista investigativo del Sole 24 Ore Claudio Gatti e pubblicata in contemporanea da Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito francese Mediapart e da quello della rivista americana The New York Review of Books, ha fatto emergere prove tangibili che portano ad Anita Raja, 63 anni, traduttrice della casa editrice e/o. Un nome fatto più volte, assieme ad altri, ma la cui menzione è rientrata sinora nella categoria dei “si dice”, senza essere supportata da elementi documentali. Il successo planetario di Elena Ferrante, cresciuto parallelamente alla curiosità per il mistero che l’ha sempre avvolta (ma si è pensato a un certo punto anche a un autore) è contenuto in alcune cifre clamorose: tradotta in oltre quaranta Paesi, la tetralogia che racconta l’amicizia di Lila e Lenù ha venduto circa un milione di copie in Italia, 2,6 milioni nell’edizione inglese in tutto il mondo, di cui 1,6 milioni in Nord America e 600mila in Gran Bretagna; L’Amica Geniale ha venduto 250mila copie da quando è uscita in Germania, solo cinque settimane fa.

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Elena Ferrante, le «tracce» dell’autrice ritrovata

Documenti, riscontri, diritti d’autore: ecco le prove che ci inducono a identificare la scrittrice napoletana in Anita Raja

«Non domandatemi chi sono… è una morale da stato civile. Regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere», affermò Michel Foucault quasi cinquant’anni fa. E per quasi un quarto di secolo anche l’autrice della tetralogia napoletana de L’amica geniale ha rigettato quella morale celandosi dietro allo pseudonimo di Elena Ferrante.
Di lei, dunque, non sono mai state pubblicate foto. Né è mai stato stabilito chi sia veramente. Come riporta la quarta di copertina di ogni suo libro, si sa solo che «è nata a Napoli». Allo stesso tempo Ferrante ha saputo parlare molto di sé, concedendo innumerevoli interviste mediate dalla casa editrice e scrivendo un volume sedicentemente autobiografico, La Frantumaglia.
Un’inchiesta condotta da Il Sole 24 Ore e pubblicata oggi anche dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito di giornalismo investigativo francese Mediapart e da quello della rivista americana The New York Review of Books, fa ora emergere evidenze “documentali” che danno un contributo senza precedenti all’opera d’identificazione della misteriosa scrittrice.
Anziché su un’immaginaria figlia di una sarta napoletana, come si presenta l’autrice in La Frantumaglia, le prove da noi raccolte puntano il dito su Anita Raja, traduttrice residente a Roma la cui madre era un’ebrea di origine polacca prima sfuggita all’Olocausto e poi trasferitasi a Napoli.
Sposata con lo scrittore napoletano Domenico Starnone, Raja ha da tempo uno stretto rapporto di collaborazione con Edizioni e/o, la casa editrice di Ferrante, per la quale da anni lavora come traduttrice dal tedesco. Per un breve periodo è stata anche coordinatrice della Collana degli Azzurri, una collana che, nella sua brevissima esistenza negli anni ’90, secondo la responsabile dell’ufficio stampa di Edizioni e/o, ha pubblicato «un totale di tre o quattro libri, tra cui il primo romanzo di Ferrante».
La responsabile stampa ha spiegato che Raja è una semplice traduttrice freelance e «assolutamente non una dipendente» della casa editrice. Questo ruolo non potrebbe mai spiegare i compensi pagati nell’ultimo paio di anni da Edizioni e/o a Raja, che dalla nostra inchiesta risulta essere stata la principale beneficiaria del successo commerciale dei libri di Ferrante.
Un’analisi dei redditi registrati da Edizioni e/o e da Anita Raja negli ultimi anni, quelli del boom della tetralogia de L’amica geniale, è illuminante. Nel 2014 il bilancio di Edizioni e/o Srl riporta ricavi per 3.087.314 euro, con un aumento di oltre il 65% sul 2013. Nell’anno successivo, il 2015, il balzo è ancora più significativo: i bilanci si chiudono a 7.615.203 euro, pressappoco il 150% in più rispetto al 2014.
Lo stesso trend in forte ascesa è replicato dai compensi che ci risultano essere stati pagati da Edizioni e/o a Raja. Abbiamo infatti appurato che nel 2014 sono aumentati di quasi il 50%, mentre nel 2015 hanno fatto un ulteriore balzo di oltre il 150 per cento.
Il compenso totale pagato l’anno scorso da Edizioni e/o a Raja è arrivato a superare di oltre sette volte il compenso del 2010, quando il successo dei suoi libri era ancora circoscritto all’Italia e ancora non era stato pubblicato il primo volume della tetralogia.
Questo balzo, di cui non ci risulta abbia beneficiato alcun altro dipendente, scrittore o collaboratore di Edizioni e/o, non può essere giustificato da un incremento della mole di lavoro di traduttrice, notoriamente pagato poco. La spiegazione più logica è che sia dovuto al successo dei libri di Ferrante. Anche perché i compensi del 2014 e 2015 appaiono coincidere proprio con le somme generate dai diritti di autore.
A confutare la tesi che i libri siano stati scritti da Raja a quattro mani con il marito Domenico Starnone è il fatto che quest’ultimo non ci risulta aver ottenuto retribuzioni equivalenti da parte della casa editrice di Sandro Ferri e Sandra Ozzola (anche se non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale).
Da visure catastali abbiamo poi appreso che nel 2000, dopo il successo del film ispirato al primo romanzo di Ferrante per la regia di Mario Martone, L’amore molesto, Anita Raja ha acquistato, da sola e non con il marito, un appartamento di sette vani in una zona nobile di Roma e nel 2001 ha poi comprato una piccola casa di campagna in un paesino della Toscana noto per essere frequentato dall’élite giornalistico-letteraria italiana.
Ma come abbiamo detto, da un punto di vista dei risultati economici, i libri di Ferrante hanno preso il volo solo dopo i successi registrati molto più recentemente nei mercati in lingua inglese, in particolare quello americano, dove e/o pubblica tramite una sua sussidiaria. Ed è quindi significativo che quattro mesi fa, nel giugno scorso, Domenico Starnone risulti aver comprato un altro appartamento a Roma a pochi passi da quello intestato a sua moglie. Si tratta di 11 vani e mezzo per un totale di 227 metri quadri all’ultimo piano di un’elegante palazzina dei primi del ’900 in una delle strade più belle di Roma il cui valore di mercato si aggira tra 1,2 e 2 milioni.
Il fatto che l’appartamento sia intestato a Starnone ovviamente non significa che il denaro utilizzato sia suo e non di sua moglie perché, come noto, in regime di separazione dei beni quando un coniuge ha già una casa intestata conviene sempre che la seconda sia intestata all’altro.
Per i dovuti riscontri, il Sole 24 Ore ha lasciato messaggi al cellulare di Domenico Starnone e del fratello di Anita Raja elencando le prove trovate e le conclusioni a cui siamo giunti. Ma la traduttrice non ha mai risposto o accettato il contraddittorio.
Anche Sandra Ozzola e Sandro Ferri, i due comproprietari di e/o, hanno respinto il confronto. In una breve conversazione telefonica, Ferri è stato perentorio: «Se mi dice che fa un articolo in cui fa delle rivelazioni, io le dico subito che non le possiamo né dare i nostri dati né io le posso rispondere.
[…] Noi siamo abbastanza seccati da questa violazione della privacy, nostra e di Ferrante, e se l’articolo è in quella direzione, le dico che mi dispiace ma noi non possiamo collaborare».
Certo è che da 24 anni, da quando cioè ha pubblicato il suo primo libro, Ferrante si cela dietro un nome studiato a tavolino in evidente omaggio a Elsa Morante. E da allora, con la complicità della sua casa editrice, più o meno controvoglia, l’autrice ha partecipato a questo gioco mediatico sfamando la vorace curiosità di giornalisti, critici e lettori, prima con informazioni sporadiche e poi con un epistolario pubblicato su impulso dei suoi editori. A sollecitarlo era stata una lettera aperta in cui Sandra Ozzola osservava che la curiosità dei lettori «meriterebbe forse una risposta più generale. Non solo per placare quanti si perdono nelle ipotesi più arzigogolate sulla tua reale identità, ma anche per un sano desiderio dei tuoi lettori di conoscerti meglio».
Era nata così La Frantumaglia, unica opera non fiction pubblicata da Ferrante nel 2003 e di cui è appena uscita in Italia un’edizione aggiornata. In quelle pagine i lettori avevano appreso che la scrittrice ha tre sorelle, che la madre era una sarta napoletana incline a esprimersi «nel suo dialetto», e che lei aveva vissuto a Napoli fin quando non ne era «scappata via» avendo trovato lavoro altrove.
Nessuno di questi dettagli corrisponde alla vita di Anita Raja. Come la madre di Elsa Morante, la sua era infatti un’insegnante, non una sarta. E non era affatto napoletana. Ebrea (come la madre di Morante) era nata a Worms, in Germania, da una famiglia emigrata dalla Polonia e parlava italiano con un evidente accento teutonico (si veda l’articolo nella pagina seguente). In più Raja non ha sorelle, solo un fratello minore, e a Napoli è nata ma ha passato solo i primi tre anni di vita. In realtà è cresciuta e ha sempre vissuto a Roma.
Ma in La Frantumaglia, Ferrante aveva avvertito i lettori. Non una, bensì due volte. «Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona», aveva scritto. E, poco più avanti, aveva aggiunto: «Italo Calvino nel 1964 scriveva a una studiosa che chiedeva informazioni personali: “Mi chieda pure quel che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità. Di questo può star sicura”. Questo passo mi è sempre piaciuto e almeno parzialmente l’ho fatto mio».
Mentendo – o meglio, annunciando che, qua e là avrebbe mentito – a nostro giudizio la scrittrice ha però compromesso il diritto che ha sempre sostenuto di avere (e che comunque solo parte del vasto mondo dei lettori e dei critici le hanno riconosciuto): quello di scomparire dietro ai suoi testi e lasciare che essi vivessero e si diffondessero senza autore. Anzi, si può dire che abbia lanciato una sorta di guanto di sfida a critici e giornalisti.

Finora a cimentarsi nella ricerca dell’identità della creatrice di Lila e Lenù sono stati critici letterari, che hanno usato metodi di ricerca filologica e letteratura comparata. Convenzionali e non. Una decina di anni orsono, su richiesta dell’italianista Luigi Galella, un team di fisici e matematici dell’Università La Sapienza di Roma diretto da Vittorio Loreto aveva per esempio usato un programma da loro elaborato per analizzare i primi libri di Ferrante. Arrivarono alla conclusione che c’era un’alta probabilità che fossero stati scritti da Domenico Starnone, da allora inserito nella lista dei “possibili Ferrante”. Con lui in quell’elenco c’è anche sua moglie Anita Raja, da tempo segnalata da Dagospia («Lo sanno anche i sassi che Elena Ferrante è Anita Raja», ha scritto). Ma anche gli stessi comproprietari di e/o, Sandro Ferri e Sandra Ozzola. E poi gli scrittori Goffredo Fofi, Erri De Luca, Fabrizia Ramondino e svariati altri, inclusa la sua traduttrice americana Ann Goldstein. Ultima arrivata è la professoressa Marcella Marmo, ordinaria di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, identificata sul Corriere della Sera dal dantista Marco Santagata sulla base di paralleli linguistici, ambientazioni e i rapporti con la Normale di Pisa, frequentata da Lenù, la protagonista della tetralogia, e dalla professoressa Marmo.
Ma nessuna di queste ipotesi è stata finora sostenuta da prove concrete come quelle da noi trovate.
Gli elementi di “evidenza contabile” non sono tra l’altro gli unici che abbiamo identificato. A questi se ne aggiungono infatti svariati altri. Cominciamo dai nomi. Quello di Elena, che la scrittrice ha scelto per il proprio pseudonimo e ha attribuito alla voce narrante della tetralogia (Elena Greco, detta Lenù) era il nome di una zia molto amata di Raja, sorella di suo padre Renato. Poi c’è Nino, nome dato al grande amore di Lenù, che è il nome con cui viene chiamato in famiglia Domenico Starnone.
Ci sono poi le coincidenze. In L’amica geniale si sottolinea l’importanza avuta dalla biblioteca rionale nella crescita culturale di Lila: «Mi mostrò fieramente tutte le tessere che aveva, quattro: una sua, una intestata a Rino, una a suo padre e una a sua madre. Con ciascuna prendeva un libro in prestito, così da averne quattro tutti insieme». In Italia il valore delle biblioteche pubbliche è raramente apprezzato. Ma Anita Raja è stata per anni direttrice della Biblioteca europea di Roma.
Per quel che riguarda il collegamento con la Scuola Normale di Pisa, abbiamo scoperto che a essere stata “normalista” è stata sua figlia, Viola Starnone (seguendo le orme della madre ha tradotto libri dal tedesco per Edizioni e/o).
Veniamo ora all’analisi dei testi. Dopo aver tradotto autori del calibro di Franz Kafka e Hans Magnus Enzesberger, Raja si è “specializzata” nella traduzione di scrittrici della Germania dell’Est. In un articolo da lei pubblicato su «Noi Donne», storica rivista del movimento femminista italiano per la quale in Storia della bambina perduta pubblica un pezzo anche Lenù (altra coincidenza), manifesta la sua ammirazione per una narrativa in grado di produrre «un corpo sociale femminile emancipato e perciò capace di […] esprimere voci che sintetizzano narrativamente questa capacità di autoriflessione». Il riferimento è a Helga Schubert, Helga Konigsdorf, Maxie Wander, Sarah Kirsch, ma soprattutto a Christa Wolf.
Nel corso degli anni, con quest’ultima scrittrice Raja aveva stabilito un rapporto estremamente profondo: «Ho conosciuto Christa Wolf nel 1984, conoscenza che negli anni si è trasformata in amicizia […] Per me questo è stato molto istruttivo […] Il suo lavoro di verbalizzazione ha agito sul mio più povero e comune lavoro di accoglienza nella mia lingua, e lo ha potenziato, costringendomi a vie che non mi sarebbe mai venuto in mente di tentare».
L’italianista della New York University Rebecca Falkoff è convinta che il legame tra Raja e Wolf confermi che dietro allo pseudonimo di Ferrante si nasconde la traduttrice di Edizioni e/o. «Dal punto di vista tematico le opere di Ferrante si incrociano considerevolmente con quelle di Wolf. La tetralogia di Ferrante inizia con la scomparsa di Lila e Riflessioni su Christa T., della Wolf, racconta la storia di una donna che ricostruisce le tracce di un’amica perduta. Si pensi poi a Medea e Cassandra, due rivisitazioni di Wolf di testi classici, e al fatto che anche I giorni dell’abbandono di Ferrante si ispira ai miti di Medea e Didone, mentre, con la sua pericolosa preveggenza, Lila ricorda la figura di Cassandra. Nel descrivere il suo rapporto di apprendistato letterario con Wolf, che divenne per lei una madre simbolica, Raja spiega che traducendo le parole di Wolf ha trovato il coraggio e il linguaggio per osare quello che altrimenti non avrebbe osato. Può darsi che si riferisse alle traduzioni, ma credo piuttosto che alludesse alla sua decisione di pubblicare i suoi scritti».
L’influenza di Wolf, morta nel 2011, spiega anche come mai il programma del professor Loreto, il fisico de La Sapienza, abbia individuato legami tra i testi di Ferrante e quelli di Starnone. Con tutta probabilità il loro comune denominatore è stata Christa Wolf, scrittrice che ha fortemente influenzato sia marito che moglie. A dirlo sono loro stessi. In un articolo pubblicato su «Il Mattino» il 18 marzo 2009, Raja e Starnone scrivono: «Ogni libro di Christa che ho tradotto in italiano è diventato, tra noi due, per mesi, oggetto di discussione, un’occasione per riflettere, per apprendere. Non era solo passione letteraria, voglia di venire a capo di un testo complesso […] Christa ci ha sedotto».
Abbiamo pensato di chiedere aiuto a Jana Simon, nipote della scrittrice tedesca, giornalista del settimanale «Die Zeit» e autrice di un libro sulla nonna. Ma quando le abbiamo detto di voler parlare dell’influenza di Wolf su Ferrante, ci ha risposto con un breve sms: «Sfortunatamente non posso dire niente». E quando abbiamo insistito nel volerle parlare ci ha detto: «Mi piacerebbe molto, ma il fatto è che non ho niente da dire. Il primo libro della Ferrante sarà pubblicato in Germania solo a settembre». La cosa pareva strana. E ci è stato facile appurare che, nonostante il primo libro della tetralogia sia in uscita solo adesso, tre libri precedenti sono stati pubblicati a partire da oltre un decennio fa.
Ancora più problematico era il resto del messaggio: «Naturalmente so della sua ammirazione per Christa Wolf, ma non so dire della sua influenza perché la mia famiglia non conosce i libri di Ferrante». Insomma, la stessa persona che diceva di non saper nulla su Ferrante, diceva di sapere invece della sua ammirazione per la nonna. Curioso, perché nelle numerose interviste concesse nel corso degli anni, Ferrante ha nominato svariate autrici e pensatrici femministe da lei stimate e alle quale ritiene di essere debitrice, ma non ha mai citato Christa Wolf. Probabilmente perché avrebbe fornito un chiaro indizio sulla sua identità.
Quando abbiamo chiesto dove Simon avesse sentito parlare dell’ammirazione che la Ferrante nutriva per sua nonna, la giornalista tedesca, che fino a quel momento era stata sempre puntuale nelle risposte, si è data latitante, non rispondendo a nessuna delle ripetute richieste elettroniche di spiegazione di quella che evidentemente era stata una sua gaffe accidentale.
La scelta dello pseudonimato da parte della scrittrice napoletana risale a prima della pubblicazione di L’amore molesto, quando scrisse una lettera aperta a suoi editori dicendo: «Io sarò lo scrittore meno costoso della casa editrice. Vi risparmierò perfino la mia presenza».
In un’epoca di ricerca della notorietà a ogni costo, la scrittrice chiedeva che non si sapesse nulla della sua vita privata. Una scelta a nostro giudizio dettata da due fattori ben più nobili del “mercantilismo” di cui è stata accusata in alcuni circoli intellettuali italiani. Il primo era di natura caratteriale: «Ero spaventata dal pensiero di uscire dal mio guscio e la timidezza ha prevalso». Il secondo riteniamo sia invece stato frutto di una convinzione letteraria basata sulle idee formulate alla fine degli anni 60 da Michel Foucault (e prima di lui da Roland Barthes): «Credo che i libri, una volta scritti, non abbiano bisogno dei loro autori» ha scritto Ferrante.
Nel saggio Che cos’è un autore? Foucault aveva proposto una nuova categoria letteraria, quella della “funzione-autore”, che si sostituisse al soggetto scrivente in quanto individuo. Come una scoperta scientifica, a suo parere un’opera doveva essere validata e apprezzata a prescindere dall’autore, in modo che il linguaggio potesse affermarsi libero dal suo creatore. Era la risposta novecentesca all’approccio del secolo precedente in base al quale un’opera letteraria veniva studiata per scoprire l’individualità nascosta dell’autore.
Un quarto di secolo fa l’autrice de L’amica geniale ha optato per la via di Foucault. Forse si potrebbe provare ora una via di mezzo.

Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016

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Una trama investigativa all’altezza del mistero

Per svelare il più avvincente dei gialli culturali dei nostri giorni Claudio Gatti, giornalista investigativo di prima grandezza, ha seguito la “pista finanziaria” e ha individuato le “tracce contabili” che portano a indicare chi è la vera Elena Ferrante con il massimo dei riscontri possibili. Si è immerso dentro le pieghe più nascoste di questo mistero. Carta dopo carta, verifica dopo verifica, ha trovato i segni che lo hanno portato a identificare “l’immaginaria figlia di una sarta partenopea” nella traduttrice Anita Raja, questo nome è stato fatto più volte, e a trovarne la conferma nei suoi compensi scanditi dai tempi e dai successi delle opere di Elena Ferrante, questo non lo aveva documentato ancora nessuno.
La Domenica del Sole 24 Ore è un unicum assoluto nel panorama italiano, un supplemento culturale nel cuore di un giornale economico, e non è casuale che questa inchiesta venga pubblicata qui, in questa casa, dove si mettono insieme l’economia con le sue regole e la cultura che vive di passioni letterarie e scientifiche, il gusto di scavare, senza mai fermarsi all’apparenza. L’idea di esplorare la “pista finanziaria” è proprio figlia del nostro bagaglio di storia e di competenze. Gatti ha portato a termine la sua mission, ha trovato tutti gli elementi possibili di “evidenza contabile”, ma ha anche allargato lo spettro dell’inchiesta giornalistica: ha individuato curiosità, coincidenze e contraddizioni e le ha intrecciate con comportamenti e testi. Ha poi messo in fila i fatti, quelli pubblici e quelli meno noti, dopo averli riscontrati tutti.
Oggi abbiamo deciso di raccontarveli e farete voi le valutazioni del caso, ma la cosa che mi ha colpito di più di questo lavoro è che Gatti si è appassionato all’opera narrativa ed è entrato, con lo stesso spirito investigativo, dentro la “sua” storia e i suoi personaggi. Ha scoperto che quello di Elena, detta Lenù, la protagonista della tetralogia dell’Amica geniale era il nome di una zia molto amata della Raja, e poi c’è Nino, il nome dato al grande amore di Lenù, esattamente come viene chiamato in famiglia Domenico Starnone, marito della traduttrice-autrice. Dall’inchiesta emerge anche il peso del tragico vissuto giovanile della madre di Anita Raja, un’ebrea di origine polacca sfuggita prima al nazismo e poi alla persecuzione fascista. Ne viene fuori una trama investigativa e familiare composita dove sentimenti, vita privata e identificazioni contabili si intrecciano e, spesso, si sovrappongono. All’altezza del mistero da svelare, tutto da leggere.

Roberto Napoletano, Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016

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Elena Ferrante / le origini

La forza di Goldi Petzenbaum

La madre di Anita Raja era un’ebrea sfuggita al nazismo: la ricostruzione di come trovò rifugio e sofferenza in Italia
Nella narrativa di Elena Ferrante non si vedono tracce della storia personale di Anita Raja. I drammi descritti sono quelli dei bassi napoletani, dell’immediato dopoguerra italiano, degli anni di piombo, sono le prepotenze sociali e le sopraffazioni sulle donne. Nessuno dei suoi libri lascia trapelare segni delle tragedie vissute dalla famiglia materna di Raja – dei pogrom in Polonia, delle persecuzioni naziste in Germania, dei soprusi razziali in Italia o della grande bestia dell’Olocausto che in tre anni ha divorato i bisnonni e una dozzina di altri suoi familiari.
Ma è legittimo il dubbio che l’attrazione che Ferrante ha dichiarato di avere per quelle che definisce «immagini di crisi» e «affacciarsi sul tremendo» sia in qualche modo legata alla storia di Golda Frieda Petzenbaum, detta Goldi, la madre di Anita Raja.
Piccolina – era alta un metro e sessanta – capelli rossi e occhi azzurri, Goldi ha vissuto la peggior tragedia del XX secolo uscendone capace di quell’impresa che in un suo saggio Anita Raja attribuisce alla Cassandra di Christa Wolf: «Ricostruire una fisionomia autonoma del femminile per muoversi al di fuori dei ritmi temporali imposti in epoche di orribili macellai».
Da giovane Goldi è sopravvissuta alle discriminazioni, prima naziste e poi fasciste, al confino, alla fuga nella notte verso la Svizzera e poi a quasi due anni in diversi campi per rifugiati. Da adulta, a 53 anni, dopo la morte del marito, il magistrato napoletano Renato Raja, si è reinventata rituffandosi nella lingua dei suoi parenti (e dei suoi persecutori), il tedesco, andando a insegnarlo in una scuola privata di Roma e co-pubblicando due libri di grammatica con la germanista romana Elisabetta Mattioli. Nonostante siano passati 30 anni dalla sua morte, il 12 maggio 1986, Mattioli la ricorda ancora perfettamente: «Era una donna simpatica, spiritosa, creativa, intellettualmente molto vivace, e con un grande senso dell’ironia».
Eppure la vita aveva segnato Goldi come poche altre persone. Nata nel 1927 a Worms da genitori fuggiti dalla Polonia, aveva lasciato la Germania con la famiglia a dieci anni. Nel 1937, essendo la vita divenuta insopportabile per gli ebrei, suo padre Abraham, detto Wrumek, decise di cercare rifugio in Italia, dove arrivò il 18 ottobre con la moglie Sally Regina e l’unica figlia rimasta (l’altra, Fanny Gisela, era morta ancora bambina in Germania).
Scelsero Milano, andando a vivere in via Sangallo, zona Città Studi. Ma la serenità non era nelle carte per la famiglia Petzenbaum. Il 18 settembre dell’anno successivo, dal balcone del Municipio di Trieste, Mussolini annunciò i primi «provvedimenti per la difesa della razza» che avviarono le persecuzioni fasciste contro gli ebrei, in particolare quelli stranieri.
Il 15 giugno 1940, cinque giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il ministero dell’Interno emanò un ordine di arresto per tutti gli ebrei stranieri, al fine di smistarli in campi d’internamento appositamente allestiti in località dell’Italia centro-meridionale.
Il 12 luglio il ministero stabilì che Sally e Goldi dovevano essere trasferite in un paesino in provincia di Cosenza, Spezzano della Sila, e Wrumek internato a Urbisaglia, in provincia di Macerata, dove era stato allestito un campo di concentramento maschile nel palazzo dei conti Giustiniani-Bandini, adiacente all’Abbadia di Fiastra.
Da una successiva nota della Prefettura apprendiamo che il 24 luglio, «col treno accelerato n.1351 in partenza di Milano alle ore 5,07, debitamente accompagnati da Agenti di P.S. saranno avviati al campo di concentramento di Urbisaglia n.41 ebrei tedeschi». Wrumek era di nazionalità polacca, ma nella disposizione del Ministero con cui veniva ordinato il suo internamento era identificato come “ebreo tedesco”. Tutto lascia dunque pensare che su quell’accelerato ci fosse anche lui.
Dalla «Scheda individuale – Campo di concentramento internati Abbadia di Fiastra» risulta essere stato registrato all’una di notte del 25 luglio 1940.
Dieci giorni dopo Sally e Goldi arrivarono a Spezzano, dove invece non vi era alcun campo. Era una sorta di confino. Per nulla rassegnata, pochi giorni dopo l’arrivo in Calabria, Sally chiese il ricongiungimento con il marito. Ma il 28 settembre 1940, in una lettera alla Prefettura di Cosenza, il Ministero dell’Interno rispose che la domanda «non può essere accolta». Il nullaosta ministeriale arrivò il 5 novembre, anche se Sally e Goldi dovettero aspettare fino al 16 di quel mese per riabbracciare il familiare a Spezzano.
Un anno e mezzo dopo, il 28 maggio 1943, il prefetto di Cosenza scrisse al ministero dell’Interno segnalando che gli internati di Spezzano «mantengono una condotta che lascia molto a desiderare, in quanto stanno in continui contatti tra loro e spesso si associano con persone sospette del luogo. Pertanto, stimo opportuno vengano assegnati possibilmente in un campo di concentramento». Il 7 giugno 1943 il ministero rispose autorizzando il trasferimento a Ferramonti, sempre in provincia di Cosenza, degli «elementi ritenuti più pericolosi» e una nota della direzione del campo di Ferramonti, datata 28 luglio 1943, ci informa che «sono qui giunti n.12 internati ebrei». I coniugi Petzenbaum sono il sesto e settimo nome dell’elenco.
Quello di Ferramonti fu il più grande campo d’internamento per ebrei stranieri d’Italia. Nei cinque anni e mezzo di sua attività ne transitarono circa quattromila. Costruito in un’area malarica, recintato da una staccionata di legno sormontata da filo spinato e munito di otto garitte che ne sorvegliavano il perimetro, era composto da 92 capannoni bianchi, alcuni destinati ad attività amministrative e gli altri adibiti a dormitori per i prigionieri.
Per i Petzenbaum segnò comunque un peggioramento delle condizioni di vita. La disciplina del campo era scandita da una serie di obblighi. In primis l’appello di controllo. Tre volte al giorno – alle 9, a mezzogiorno e alle 19 – tutti gli internati dovevano aspettare sull’attenti e rispondere quando veniva chiamato il loro nome.
Ma non fu quello il destino di Goldi. Consapevoli delle intenzioni di Hitler, prima di trasferirsi a Ferramonti, Wrumek e Sally decisero infatti di far scappare la figlia in Svizzera. A spingerli erano state le comunicazioni ricevute nel corso del 1942 da familiari rimasti in Polonia, i quali nonostante la doppia censura – quella nazista e quella fascista – erano riusciti a informarli del fatto che gli ebrei, inclusi membri della loro famiglia, stavano scomparendo, portati in «luoghi sconosciuti». Wrumek ricevette cartoline dal padre, all’epoca chiuso con la madre nel ghetto di Cracovia, da sua sorella Gusta, prigioniera nel ghetto di Tarnow, e in ultimo anche da Sarah e Joshua, i figli di Gusta, rispettivamente di 10 e 16 anni. Particolarmente tragico il contenuto di quest’ultima cartolina. Sarah e Joshua avevano scritto allo zio che erano rimasti soli perché i tedeschi avevano portato via i genitori e, sapendolo in Italia, lo avevano supplicato di chiedere aiuto al Papa. Un tragico appello al quale, dall’esilio di Spezzano, Wrumek non ebbe ovviamente alcun modo di rispondere. E la famiglia fu decimata: Gusta e suo marito David furono probabilmente uccisi nel campo di sterminio di Belzec, Joshua morì ad Auschwitz assieme alle cugine Shoshana e Khana, figlie di un fratello di Wrumek, mentre di Sarah non si è mai più saputo nulla.
Per evitare gli stessi rischi, Wrumek organizzò per Goldi un pericoloso viaggio clandestino dalla Calabria alla Svizzera. A ricostruirlo è il verbale dell’interrogatorio della ragazza compilato dalla polizia elvetica che abbiamo ottenuto dal «Holocaust Survivors and Victims Resource Center» del the US Holocaust Memorial Museum di Washington.
Goldi aveva lasciato Spezzano con la figlia di un’amica dei suoi genitori, la quale tornava a Milano dopo aver visitato i nonni, anch’essi internati nel paese dei Petzenbaum. Era poi rimasta a Milano per qualche mese con l’amica dei genitori e sua figlia prima di scappare insieme. «Un giorno la signora che mi ospitava seppe che era ricercata da tedeschi e fascisti, perché anch’essa di nazionalità polacca e di razza ebraica», si legge nel verbale. «Per sfuggire alla cattura, unitamente a detta signora e sua figlia, abbiamo passato la frontiera clandestinamente il giorno 11.11.1943 da Bruzella».
Quarant’anni dopo Goldi ricostruirà quell’episodio per la sua amica e coautrice Elisabetta Mattioli. La germanista non lo ha mai dimenticato. «Goldi era una persona riservata. E non parlava del suo passato. Solo una volta lo ha fatto, e io capii subito che era un momento unico», ricorda Mattioli. «Mi raccontò di aver passato il confine con la Svizzera a piedi, di notte con altri rifugiati. Si ricordava che era buio, era freddo – c’era la neve – e le era stato detto di procedere in fila indiana senza mai parlare. A un certo punto, una di loro perse qualcosa, ma era troppo pericoloso tornare indietro a cercarla e non le fu concesso. Goldi mi disse di aver sentito il forte senso del pericolo e ancora oggi, ogni qualvolta mi trovo in montagna a camminare nei boschi, mi ricordo delle sue parole… di Goldi che attraversa il confine al buio e nella neve».
La tragica ironia è che quell’angoscia, e la successiva solitudine in Svizzera, le sarebbero state risparmiate se fosse rimasta con i genitori. Perché, poco più di un mese dopo l’arrivo di Wrumek e Sally, il campo di Ferramonti fu liberato dagli alleati che avevano cominciato a risalire la penisola.
Gli internati furono col tempo liberati e, sebbene la maggior parte degli ebrei decisero di trasferirsi in Palestina o negli Stati Uniti, la famiglia Petzenbaum fece una scelta insolita: andare a vivere a Napoli, dove si stabilirono prima in Corso Vittorio Emanuele, a sud di Castel Sant’Elmo, e poi in via Cimarosa, al Vomero. Goldi fu in grado di raggiungerli solo agli inizi di settembre del 1945.
A Napoli Goldi si iscrisse al liceo classico Jacopo Sannazaro dove, frequentando una classe per alunni di religione ebraica, divenne grande amica di una ebrea napoletana, Anita Gherscfeld, anche lei residente in via Cimarosa. Dopo aver conosciuto un giovane magistrato napoletano, Renato Raja, pur davanti a una leggera ritrosia dei genitori che vedevano con preoccupazione l’unione con un cattolico, lo sposò. Nel 1953 nacque la loro prima figlia, che Goldi volle chiamare Anita. Tre anni dopo arrivò anche un figlio, Mario, e la famiglia si trasferì da Napoli a Roma.
«Quando la conobbi, Goldi viveva già a Roma, nel quartiere di Montesacro, ma rimase sempre molto legata a Napoli. Non solo per via del marito napoletano, ma anche perché aveva vissuto lì con i genitori. Parlava volentieri di Napoli. E ogni tanto faceva una battuta in dialetto napoletano. Con il suo accento tedesco».
Descrivendo sua madre nell’epistolario La frantumaglia Elena Ferrante non ha inserito quel dettaglio, pensiamo noi per non farsi scoprire. Certo è che quell’accento teuto-napoletano doveva sicuramente essere molto speciale. Come Goldi.

Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016