Piperno contro Safran Foer
Cosa scrivervi di un libro che appassiona, che non lasci fino a che non l’hai finito, ma del quale non puoi, non devi nemmeno per sbaglio far intendere il finale?
Eppure Dove la storia finisce, di Alessandro Piperno (Mondadori) non è un giallo, anche se alla fine la Colpevole è individuata, ma non arrestata. È una storia di famiglie, quella degli Zevi e dei Mogherini, che si intrecciano e sbrecciano nella Roma di questi anni fashion e depressi; è una Tragedia all’Italiana, dunque una parodia: umorismo e lacrime, nella miglior tradizione della letteratura ebraica della diaspora, soprattutto. Il finale è indulgente, però – o addirittura positivo -, ma non ve lo posso raccontare…
Tutto comincia con il ritorno a Roma di Matteo, fedifrago e cialtrone quanto simpatico e seducente, dopo 16 anni di esilio forzato in California a causa di una seria minaccia alla sua vita. Ad attenderlo, con ansia e desiderio, la sua prima moglie Federica ma non i due figli Giorgio e Martina. Quest’ultima è ormai una giovane, problematica, irrisolta donna – sposata con Lorenzo Mogherini, rampollo di una più che benestante famiglia capitolina; e Giorgio – che dalla fuga precipitosa del padre, quando aveva sedici anni, ha preso l’abbrivio per diventare ormai un uomo di successo – dell’improvviso ritorno di Matteo a Roma teme gli effetti al punto di non volerlo incontrare.
Le relazioni pericolose che si dipanano fra questo quintetto e gli altri coprotagonisti di questo romanzo tenero e severo – sempre in bilico fra seduta di autoanalisi e impulsi distruttivi – sono sulla scena dalla prima all’ultima pagina; ma il paesaggio, la scenografia della commedia tragica è la confusa, drammatica, ridicola situazione umana dei nostri tempi: Dove la Storia Finisce è quasi un Gli Indifferenti novant’anni dopo, dove ormai gli assenti personaggi di Moravia sono però solo capaci di farsi del male.
Piperno sfoggia un brand dropping (snocciolare nomi di marchi celebri) da insider, messi in bocca e sui corpi ben vestiti dei suoi personaggi borghesi più o meno disperati, ben oltre l’orlo della crisi di nervi portate al cinema da Almodovar. Mangiano strano, ancora più strano si parlano o evitano ( e qui il richiamo è a Carlo Verdone), ma non lo fanno. Il sesso, per la prima volta in un libro del Premio Strega, è solo un fantasma – e in questo mio ‘solo’ sta forse un segnale per la chiave di lettura del romanzo.
Non mancano invece, ma sono intonati a una tonalità meno sprezzante e più riflessiva, i temi dell’essere ebrei in Italia – e particolarmente di quella variante maggiore che è l’ebraismo romano. E non è tutto. Nel finale che non vi dico, Piperno osa un colpo da K.O., che non solo dà un altro senso alle storia d’amore e di famiglia, ma fa irrompere sulla scena la Storia con la Esse maiuscola. Ed è stato a questo punto, dopo aver letto l’ultimo paragrafo dell’ultima 276esima pagina, che il vostro esercitante lettore ha esclamato: Piperno batte Foer 2 a 0.
Valerio Fiandra
(20 ottobre 2016)