Tel Aviv Sud, il teatro di strada per il rilancio
Dal progetto “Rehovot medabrim” (le strade che parlano) dedicato alla riqualificazione urbana di Shapira, quartiere a sud di Tel Aviv, allo scontro con i sedicenti boicottatori, Micol Pietra ha toccato con mano il fascino e le contraddizioni d’Israele e l’ignoranza del Bds (il movimento che promuove il boicottaggio d’Israele). Nata a Milano, Micol ha fatto l’aliyah con la sua famiglia quando aveva 11 anni. Attraverso il suo impegno nel sociale e come produttrice nel campo dell’arte e del teatro, è possibile scoprire alcuni spaccati della realtà d’Israele.
Nel 2011 avevi partecipato a un bando a Tel Aviv per promuovere progetti dedicati alla “yazamut hahevratit”, al rinnovamento sociale. Su un centinaio di progetti, il tuo è stato tra i prescelti. In cosa consisteva e perché hai scelto il quartiere Shapira?
Shapira è un quartiere dove al degrado si uniscono problemi di convivenza tra le diverse comunità che vi risiedono, in particolare tra israeliani e lavoratori stranieri o profughi, per la maggior parte provenienti dal Corno d’Africa. Per affrontare questi problemi avevo scelto di usare l’arte di strada, come strumento pratico per avvicinare persone diverse fra loro. Ed ero convinta che migliorare la qualità estetica delle strade permettesse di diminuire gli episodi di vandalismo: una volta che tu, residente, sei parte del processo per il miglioramento delle tue stesse strade, è più probabile che ti senta parte del tuo quartiere, e svilupperai un senso di appartenenza. A Shapira vi era molta tensione tra israeliani e lavoratori stranieri. Si era arrivati a manifestazioni dove i residenti israeliani dicevano “non ci sentiamo più a casa” e “perché non li mettete a nord Tel Aviv, perché tutti qui?”. A questo si aggiungeva, la sensazione di degrado percepita dai residenti, secondo cui il comune li aveva abbandonati. Queste problematiche mi hanno fatto scegliere Shapira. L’idea del progetto, venendo incontro a queste esigenze, era di ristrutturare le vie, di rinnovare, di fare, come si dice in ebraico, un “hidush”, anche visivo: si trattava di abbellire le panchine, gli alberi etc.
Quindi era sì arte di strada, ma in un’accezione diversa da quella usuale. Non si trattava di fare uno spettacolo ma di arrivare a un happening finale attraverso piccole tappe. Per questo il titolo del progetto era “Rehovot medabrim”, le strade parlano. Come si è svolto e come è terminato il progetto?
Ho lavorato per un anno da sola, anche perché il bando non prevedeva un finanziamento. Ho parlato con molti artisti, raccolto idee da altre iniziative di arte di strada nel mondo. Per poter conoscere in prima persona gli abitanti, ho fatto volontariato per un’associazione di quartiere. C’era da capire come rendere il progetto, in particolare l’- happening finale, economicamente stimolante. L’idea era che potesse essere il trampolino di lancio per una riqualificazione anche economica, non solo estetica. In questo periodo il contatto con i residenti e la loro reazione al progetto erano stati molto positivi. Purtroppo, però, la tensione tra israeliani e lavoratori stranieri continuava ad aumentare. Si arrivò sino al punto in cui vennero gettate delle bottiglie molotov in un asilo riservato ai figli di etiopi senza permesso. Dopo questo episodio i residenti del quartiere mi hanno comunicato che non volevano più collaborare tra di loro. In questa situazione non me la sono più sentita di continuare.
In ogni caso continui a lavorare nell’ambito artistico.
Sì, posso definirmi un’organizzatrice di eventi artistici. Nello specifico curo i contatti tra eventi israeliani e gruppi o singoli artisti esteri, ma anche viceversa. Faccio parte della direzione artistica di festival israeliani per alcuni comuni e lavoro con un gruppo di teatro, per la loro produzione all’estero. L’arte continua ad essere strumento per promuovere avvicinamento tra persone: i festival sono gratuiti, pubblici, spesso si svolgono in strada, e persone di differenti origini e orientamenti possono incontrarsi e condividere un momento. Si crea una lingua comune che va al di là della barriera linguistica. Inoltre lavoro per lo più per eventi di teatro muto, di pantomima, acrobazia: è un linguaggio universale che parla e coinvolge al di là delle appartenenze. In questo ambito, però, hai dovuto fronteggiare l’ostilità del movimento che vuole il boicottaggio d’Israele, il Bds.
Qual è la tua esperienza in merito?
Mi è capitato spesso di sentire artisti che esprimevano il loro timore a esporsi, nei rispettivi paesi, venendo ad esibirsi in Israele. Spesso mi dicono: “se vengo in Israele Bds mi creerà problemi nella mia attività lavorativa”. Ci sono poi i casi di artisti che volontariamente aderiscono a Bds e che non vogliono lavorare qui. Secondo loro impedire l’arte è un modo per esprimere il dissenso. Per me è vero proprio il contrario: l’arte è uno strumento di convivenza, può fare del bene solo se c’è. Boicottando l’arte è come se tu tagliassi la possibilità di scambio e di idee. L’idea del Bds è “far soffrire per far cambiare”, ma nel campo dell’arte le cose funzionano diversamente. Questi festival sono uno dei momenti in cui tutti i tipi di persone della società israeliana, religiosi e non, ebrei e arabi, condividono dei momenti piacevoli assieme. Momenti che aumentano l’empatia reciproca. Come israeliana, spesso critica nei confronti delle politiche governative e attiva nei progetti di convivenza, il Bds mi suscita automaticamente rabbia.
Restando alla tua esperienza con BDS, c’è qualche episodio particolare, che ritieni emblematico?
Ad esempio, un’artista di strada italiana mi ha recentemente detto che non avrebbe partecipato al festival israeliano per conto del quale l’avevo contattata, fino a quando non avesse visto comparire nel programma degli artisti palestinesi, fino a quando il programma non fosse stato anche in lingua araba e – continuando la lista di condizioni, fino a quando tra il pubblico del festival non fosse stata presente un’utenza palestinese. I fatti, però, non stanno così. Anzitutto perché il programma era scritto anche in arabo, quindi semplicemente si sbagliava. Poi il fatto che non facesse la distinzione tra palestinesi e arabi israeliani, sia per gli artisti che – in particolare – per il pubblico, la dice lunga circa la sua effettiva conoscenza della situazione locale. Soprattutto avevo trovato indisponente il fatto che ponesse condizioni, che avesse un atteggiamento intimidatorio. Non posso avere la responsabilità di chi viene e di chi non viene. Posso dire quello che è il festival, non garantire la tipologia dei partecipanti. In più, per lo stesso festival, avevo contatto degli artisti palestinesi di Ramallah: non mi hanno mai risposto. Un altro esempio: un gruppo spagnolo aveva paura che, se avesse accettato di partecipare al festival israeliano, BDS li avrebbe boicottati. Avrebbero scoperto la data del volo, così mi dissero, e avrebbero cercato di impedirne la partenza. Mi sembra un caso ancora peggiore dell’esempio dell’italiana perché in quel caso, almeno, l’artista si assumeva la responsabilità in prima persona delle proprie scelte. Ripeto, dal mio punto di vista, di israeliana, il problema non è che qualcuno ti critichi, anche duramente. Il problema è il metodo. Se mi mandassero dei consigli su come organizzare festival più “giusti”, ad esempio maggiormente aperti ad altre sezioni della popolazione, se si rivolgessero a me in senso propositivo per vagliare le possibilità di migliorie in questo o in quel caso concreto, allora apprezzerei e valuterei, a mia volta, quale consiglio poter prendere in considerazione. Ci tengo a dire questo proprio perché, come nel caso del progetto a Shapira, sono convinta che l’arte possa essere utile per problemi sociali, culturali. Il mio problema con BDS non è l’idea della critica, del cambiamento, ma il metodo terroristico da loro utilizzato.
Cosimo Nicolini Coen, Pagine Ebraiche Novembre 2016
(6 novembre 2016)