Denial, il falsificatore della storia

kasamQuali sono gli ingredienti che rendono un film un’esperienza eccezionale? Me lo sono chiesta guardando Denial (arriverà il 17 novembre sugli schermi italiani), che mi ha coinvolta a livello emotivo e intellettuale come da tempo non mi era successo.
C’è la maestria degli attori, certo, e il ritmo del montaggio, e la fotografia impeccabile: ma c’è soprattutto la capacità di narrare una storia complessa e rischiosa senza cadere nel sentimentalismo, senza tradire la memoria storica, creando l’emozione attraverso il rigore, il non detto, l’understatement.
L’Olocausto è il protagonista del film, ma in una delle sue varianti più subdole: il negazionismo. La storia, vera e ricostruita con precisione fino nei minimi dettagli, è quella del processo per diffamazione intentato dal sedicente storico inglese David Irving (un odioso e convincente Timothy Spall) nei confronti di Deborah Lipstadt (Rachel Weisz, bravissima), una giovane studiosa ebrea americana, docente universitaria di Storia della Shoah, che nel suo libro “Denying the Holocaust” lo accusò di falsificare le fonti o deliberatamente ignorarle. Il processo avviene sedici anni fa, nel 2000, intentato in Inghilterra, dove per questo tipo di reati l’onere della prova è capovolto: non è quindi Irving a dover dimostrare di essere stato calunniato, ma alla Lipstadt di produrre l’evidenza che le sue parole sono veritiere. La difesa si trasforma in accusa.
Irving non contesta l’esistenza dei campi di concentramento, contesta che fossero delle macchine per la morte. Sfida a trovare un documento scritto in cui Hitler abbia ordinato di sterminare gli ebrei, contesta le deposizioni dei sopravvissuti strumentalizzando vuoti di memoria o particolari che il tempo e l’emozione hanno reso imprecisi, e sostiene che le camere a gas erano semplici celle di disinfestazione dai pidocchi per il i quali lo Zyklon B era normalmente utilizzato.
In ballo non c’è solo la credibilità della Lipstadt, ma la credibilità della Shoah: una sentenza favorevole a Irving costituirebbe lo sdoganamento del negazionismo. Il processo, che durò più di trenta settimane di dibattimento, fu seguito dalla stampa di tutto il mondo. Il film lo ricostruisce in modo magistrale, utilizzando le trascrizioni dell’aula: non una parola è inventata.
Così come viene ricostruito l’immane lavoro preparatorio, due anni, messo in atto da un nutrito team di avvocati, guidati da Anthony Julius, che aveva difeso Diana d’Inghilterra nel suo divorzio da Charles, e che si offrì di patrocinare gratuitamente la giovane storica americana. In Inghilterra l’avvocato che compare in Tribunale, il barrister, è una figura ben distinta da quello che istruisce la difesa, ed è anche questo doppio gioco di squadra uno degli elementi chiave del film.
Ma non è solo la brillantezza di una difesa/accusa giocata su virtuosismi intellettuali dal magistrale Tom Wilkinson nei panni del barrister Richard Rampton a rendere il film imperdibile. C’è anche il conflitto emotivo tra la giovane studiosa, che vorrebbe testimoniare in prima persona la fondatezza delle sue tesi e gli avvocati che glielo negano, convinti che sarebbe solo un modo di darla in pasto alla spregiudicatezza e alle capacità manipolative di Irving. Un altro tipo di denial, sul quale si gioca il sottile doppio senso del titolo. Ed è il conflitto tra il sentimento del giusto e la Giustizia, tra la volontà di parlare e la necessità di tacere, a costituire il nucleo drammatico del film. Per vincere la guerra, bisogna saper perdere una battaglia, essere disposti a sacrificare la propria individualità e il desiderio di rivalsa e autoaffermazione, bisogna anche saper rinunciare a farsi portavoce di chi ha subito la più grande di tutte le ingiustizie: la deportazione e la degradazione dei campi di concentramento. E’ una lezione che Deborah Lipstadt apprende faticosamente, e che racconterà nel suo secondo libro ”History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier”, dal quale il film è tratto.
In questo momento storico in cui la verità degli ebrei è di nuovo minacciata dalla sentenza dell’Unesco che nega il rapporto storico tra ebraismo e Gerusalemme, il film costituisce un documento importante su come sia necessario difendersi da chi in malafede cerca di falsare la realtà dei fatti manipolando la storia e ricostruendo la realtà secondo tesi preconcette e ispirate all’odio.

Viviana Kasam

(10 novembre 2016)