Il Dybuk di Andrej Wajda

schermata-2016-11-27-alle-14-08-21Si è tenuto negli scorsi giorni all’Università L’Orientale di Napoli un seminario dedicato al grande regista polacco Andrzej Wajda, scomparso il 9 ottobre scorso a 90 anni. “Andrzej Wajda: il cinema, gli ebrei, la Polonia”, il titolo dell’evento con protagonisti Andrea De Carlo, Raffaele Esposito, Giancarlo Lacerenza, Sarah Kaminski e Silvia Parlagreco. Il seminario è stato anche l’occasione per presentare l’edizione dal taccuino Dybuk (Libro d’arte, Officina d’arte grafica Lucini, Milano, 2015), scritto e disegnato nel 1988 dal regista in occasione della prima dello spettacolo Dybuk a Cracovia e poi del viaggio compiuto in Israele per un nuovo allestimento a Tel Aviv con la compagnia del Teatro Naziomale Habima. Un’edizione curata da Sarah Kaminski, Giulia Randone e Silvia Parlagreco, che sul numero di Pagine Ebraiche di novembre ha raccontato la complessità del lavoro di Wajda, tra teatro e cinema.

Powidoki (nel titolo internazionale Afterimage), il film dedicato alla complessa figura del pittore Władysław Strzemiński, è l’ultima riflessione che Andrzej Wajda ci ha lasciato sull’esistenza e su quel tema a lui congeniale del confronto dell’Uomo/Individuo con la Storia. Non ho ancora visto il film, ma la scelta dell’argomento mi orienta a pensare che il protagonista appartenga a quella schiera di uomini di cui Wajda si è sentito partecipe del destino, uomini che avrebbe voluto difendere e salvare.
La sua carriera cinematografica era iniziata presto, il primo film d’autore, Generazione del 1955, è già indicativo del rapporto sinergico che il regista avrà lungo tutta la carriera con la letteratura e la storia del suo paese. Era un osservatore molto attento, la natura lo aveva dotato della incredibile capacità di cogliere con lo sguardo una infinità di informazioni. Dedicava poi un tempo indeterminato nel raccogliere altri dati utili a completare il quadro delle proprie osservazioni; non aveva fretta, sapeva attendere quanto riteneva necessario per formare la sua visione e solo allora la trasponeva cinematograficamente. Così abbiamo avuto capolavori con una gestazione molto lunga come Katyń e come, credo, questo ultimo film. In altri casi è stata la Storia a interferire nel destino della sua produzione e creare un altro tipo di attesa, mi riferisco al caso di L’uomo di marmo la cui sceneggiatura depositata nel 1963 fu autorizzata dal Ministero della Cultura solo nel 1976.
Se a questi titoli già esaurienti, ne aggiungiamo altri, per esempio Cenere e diamanti, La terra della grande promessa, Dottor Korczak, ci rendiamo conto di quanto Wajda sia stato importante nella storia della sua nazione, e di quanto sia stato coraggioso nel prendere sempre una posizione politico/sociale chiara sia nella vita che nell’arte. Ha toccato nella sua cinematografia i temi più scottanti mantenendo lo sguardo a 360° e avendo sempre presente che la Storia è fatta da un’umanità composta da singoli individui.
Ma Wajda non è stato solo un grandissimo cineasta. È stato un grande regista sia di cinema che di teatro e vorrei aggiungere un pittore. La sua formazione iniziale all’accademia di Belle Arti di Cracovia è un tassello importante. Le leggi fondamentali della composizione, lo studio del colore, del contrasto, sono un patrimonio di conoscenza che torna costantemente sia nel suo cinema che in teatro. Alcune immagini cinematografiche sono dei veri e propri quadri: immagini sospese che si imprimono nella memoria in tutta la loro bellezza.
Anche se l’Accademia si era rivelata non essere la sua strada (dopo un triennio si iscrisse alla scuola di cinematografia di Łódź) quella esperienza fu determinante. Dall’apparente sconfitta professionale nel campo pittorico Wajda aveva compreso qualcosa di determinante per la sua vita e carriera, aveva compreso che il carattere del proprio talento trovava conferma e si sviluppava nella collaborazione con gli altri, manifestandosi non solo nella propria intuizione e immaginazione, ma anche nella forza ispiratrice e nella stimolazione della creatività altrui.
Un aspetto della grandezza di Wajda è dato proprio da questo rapporto di sinergia e di fiducia che lui riusciva a instaurare con i suoi attori sia in teatro che sul set cinematografico.
Se artisticamente il cinema per Wajda era innanzitutto un’arte visiva – un’arte muta dove lui cercava di creare nuove immagini che potessero assumere per gli spettatori il ruolo di simbolo, il teatro, al contrario, era per lui il luogo della parola: attraverso i dialoghi entrava a fondo nella vita interiore dei personaggi e degli spettatori.
Come nel cinema anche in teatro Wajda sembra offrire una visione oggettiva, apparentemente imparziale e quasi distaccata della realtà; non inclina mai verso sentimentalismi, non vuole fare leva su facili meccanismi di commozione. Piuttosto costringe lo spettatore a un equilibrismo di emozioni, lo tormenta con dubbi, lo spinge a riflessioni, gli richiede uno sforzo di comprensione e una assunzione di responsabilità del proprio giudizio. Forse è proprio per questa sua onestà di visione dell’esistenza che la sua popolarità si è saldamente affermata ma non ha conquistato un pubblico passionale, una tifoseria. La sua statura artistica mi pare non sia bilanciata dalla riconoscenza del pubblico (parlo di pubblico non di critica). Per quanto riguarda l’Italia, la ‘standing ovation’ di una platea commossa fino alle lacrime gliel’ha riservata il teatro, non il cinema. L’emozione che suscitarono negli anni ottanta le sue rappresentazioni tratte da Dostoevskij fu immensa. Ma il teatro, a differenza del cinema, è effimero; Wajda lo sapeva bene e accentuò al massimo questa condizione e, assecondando l’umoralità del pubblico e degli attori, fece sì che ogni rappresentazione fosse diversa.
Amo molto il teatro di Wajda. Dopo averlo studiato, ho conosciuto e apprezzato l’uomo Andrzej Wajda e ho scoperto la sua meravigliosa attitudine al disegno. A Cracovia all’interno del Museo Manggha, che ne è il depositario, è conservato il suo archivio. Qui si trovano i suoi taccuini, piccoli libretti di dimensioni diverse dove Wajda ha annotato per ogni spettacolo teatrale pensieri e abbozzato schizzi. Uno di questi libretti, dedicato allo spettacolo Dybuk, che racconta della sua messa in scena prima a Cracovia e poi a Tel Aviv con la compagnia israeliana Habima, siamo riusciti a pubblicarlo in Italia nella sua versione originale in lingua polacca, con al fondo la traduzione in italiano e in ebraico. È stato il nostro omaggio per i suoi splendidi 90.

Silvia Parlagreco

(Foto tratta dal Taccuino Dybuk di Andrzej Wajda, Libro d’arte, Lucini, 2015 – A cura di Sarah Kaminski, Silvia Parlagreco, Giulia Randone)