Sionisti, eroi profondamente umani
Vi è un topos ricorrente, che vede nella contrapposizione tra l’ebreo sionista, halutz (pioniere) e combattente, e l’ebreo diasporico, urbanizzato e intellettuale, una declinazione in ambito ebraico dell’antitesi tra virilità belligerante ed egocentrata di contro a femminilità accogliente, creatrice, ma in qualche modo passiva. Chi oggi idealizza l’ebraismo pre-sionista si culla in questa contrapposizione non diversamente da quanto fecero, agli esordi del sionismo, i leader dei diversi movimenti, da quello socialista maggioritario a quello della minoranza di destra. Ayelet Gundar-Goshen, una giovane donna israeliana, psicologa di formazione e nipote di un ex combattente dell’Irgun, affronta a colpi di penna questi cliché (Una notte soltanto, Markovich, Giuntina 2015) confrontandosi, attraverso una scrittura lieve, con lo stupore e l’amarezza, come ci racconta nell’intervista, di una bambina di colpo posta di fronte all’umanità degli eroi del nonno. Stupore, perché gli eroi di guerra rivelano, secondo la migliore tradizione dei sabra, il loro aspetto più dolce e intimo. Amarezza, perché quella stessa umanità mostra dell’eroismo bellico il lato più vero, fatto di sofferenze inflitte e subite, e l’eros si offre nelle sue meno auliche manifestazioni, dal tradimento alla brama di possesso sino alla mestizia di chi del proprio corpo ha riconosciuto il desiderio per vederlo estinguersi, prima del tempo, nella disillusione della realtà. Così il profilo dell’uomo «tutto di un pezzo», dallo sguardo sicuro tanto nel mirino del fucile quanto sotto le lenzuola, si intacca, ma senza distruggersi: ritroviamo questo sguardo, la sua ambizione di certezza e possesso, e allo stesso tempo ne ritroviamo anche la pochezza, di fronte agli imprevisti della vita. Così uno dei protagonisti, non troverà pace, dopo aver accidentalmente ucciso una giovane madre araba con il proprio bimbo, sino a redimerne la morte mettendo in salvo della figlia di un gerarca nazista. Quasi contrappasso dantesco che, visto da alcuni critici in Italia come sintomo di pietas, potrebbe essere letto invece come un modo sapiente e amaro per fare i conti con alcune delle verità storiche della Guerra di Indipendenza. Specularmente il protagonista del romanzo, l’antieroe Markovitch, mostra come l’eroismo bellico, il «fervore» sionista possa essere «causato dall’amore per una donna» – amore non corrisposto – «e non per la patria». Freud versus Jabotinski, verrebbe da dire, pensando agli studi di Gundar-Goshen e all’insistenza con la quale l’autrice ricerca dietro ogni retorica altisonante la prosaicità dei desideri. Fin qui, una storia al maschile. Le figure femminili, nella loro diversità, non sono tuttavia degne di minore attenzione. In particolare Bella e Rachel, intrappolate in vite non scelte, mostrano la via di una sublimazione che non risolve il desiderio erotico in amor patrio, ricercando invece nella scrittura, in quella poetica in particolare, un mezzo per riconoscere la bellezza del quotidiano. Ritroviamo in questo modo il topos sopra menzionato tra esilio e femminilità? Dovremmo rispondere affermativamente, guardando a Rachel, la cui bocca si esprime in ebraico ma la cui mano scrive in tedesco, e al suo destino. Anche il giovanissimo Yair, i cui tratti fisici descritti nel libro ricordano quelli dell’Autrice, è costretto a disprezzare l’odore di frutta della propria pelle, ereditato dalla madre e stigma di femminilità, per intraprendere un rischioso tentativo di emulare le imprese belliche del genitore. L’assalto di Guntar-Goshen al mito della virilità sionista non si risolve, come ci dice lei stessa, in una «critica distruttiva». Si potrebbe concludere, strizzando di nuovo l’occhio a Freud, che è consigliabile, ma non sempre facile, uccidere i miti paterni, prima di farsene schiacciare. Il che ha un chiaro significato, oggi, in Israele, e di riflesso, per la diaspora. Abbiamo voluto chiedere che cosa sta dietro questo romanzo sorprendente.
Prima di tutto vorremmo sapere qualcosa su di te, sul tuo rapporto con la scrittura.
Mi ci è voluto molto tempo per raccogliere il coraggio di scrivere. Quando ho finito la laurea triennale in psicologia e ho iniziato la magistrale, all’improvviso mi sono spaventata pensando che la mia vita fosse come un’autostrada senza uscite, dove correvo avanti senza riflettere su cosa davvero volessi. Ma la paura di non vivere la vita che vorresti non è necessariamente negativa, è anche uno stimolo. Così mi sono iscritta a un corso per sceneggiatori alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme, dove ho incontrato Eshkol Nevo. È lui il mio maestro e sento che questo libro lo devo a lui. Senza di lui non sarebbe successo perché in una certa fase mi ha detto che saper scrivere non significava che ci sarebbe stato un libro. Perché ci sia un libro bisogna smettere di avere paura, bisogna rischiare, e se lo avessi voluto fare lui mi avrebbe accompagnata, altrimenti avrei dovuto restare tutta la vita in compagnia del «cosa sarebbe successo se…». Paura, senso di colpa e invidia sono le motivazioni più forti che ci siano.
Come è nata l’idea di scrivere questo romanzo?
Yakov Markovich è l’uomo medio che a un certo punto della sua vita prende una decisione fuori dal comune. L’idea è nata nel corso di una visita dai genitori del mio compagno, il commediografo Yoav Shoten-Goshen. La prima volta che siamo stati da loro ho visto al di là della siepe una strana casa. Non era particolarmente trascurata o buia, non aveva i muri coperti d’edera, né pipistrelli appesi alle tegole. E tuttavia emanava una sorta di tristezza, così come da altri cortili provenivano voci di bambini o profumo di carne alla griglia. Ho domandato chi ci abitasse. «Ci abita Bella. Una donna infelice». Per quel giorno non ho chiesto di più. Ma qualche mese dopo, quando eravamo seduti in cortile e la conversazione familiare minacciava di spegnersi e di trasformarsi in un silenzio imbarazzante ho di nuovo lanciato un’occhiata alla casa al di là della siepe. «Perché è infelice?». All’improvviso gli occhi si sono illuminati, non c’è niente come le disgrazie altrui per rianimare una conversazione in difficoltà. Così sono venuta a sapere che Bella Markovich era una donna stupenda, bellissima, di quelle donne che fanno volare le rondini all’indietro e correre le tartarughe, quelle che pietrificano gli uomini sul posto. Ma tra tutti quanti le era toccato di sposarsi il più mediocre dell’intero villaggio. «Perché?». Il più grande nemico di un romanzo storico sono i fatti. Per questo io e loro ci siamo separati in pace già al punto di partenza, e ognuno è andato per la sua strada. Quando un blocco della scrittura mi spingeva le dita verso un motore di ricerca su Internet spegnevo il computer. Evitavo come la peste gli scaffali di libri di storia nelle biblioteche. Perché quel periodo, un periodo di sangue, fuoco e colonne di fumo, un periodo di stelle comete e miracoli compiuti prima di colazione, non lo puoi afferrare per mezzo dei fatti. E’ vero che dei giovani dello Yishuv furono mandati in Europa per sposare donne ebree e farle scampare con matrimoni fittizi dalle tenaglie della Germania nazista, ed è anche vero che almeno uno di loro si rifiutò di concedere il divorzio al ritorno. Ma la domanda più importante, «perché?» non ha una risposta nei documenti ingialliti dell’epoca. La risposta la dobbiamo cercare qui, ora, dentro.
Perché hai scelto proprio dei combattenti dell’Irgun?
Sono stata una figlia di vecchi. Mentre altri bambini guardavano la televisione, io osservavo mio nonno che continuava a muovere divisioni e a pianificare attacchi dalla sua postazione preferita, sul balcone di casa, fino al suo ultimo giorno. Superman e Batman non erano che due tipi bislacchi che portavano le mutande sopra la calzamaglia. I veri supereroi si trovavano solo su quel balcone. Come Froika, che mi intagliava pupazzi con i noccioli di avocado e mi spiegava in dettaglio come aveva sgozzato – con lo stesso temperino! – un ladro di capre nella valle di Jezreel. E Feinberg, che aveva dato la caccia ai nazisti in Europa con il lazo, a cavallo, o perlomeno non lo negava quando mi ostinavo a domandare. E mio nonno, che sapeva rimontare una pistola a occhi chiusi, anche quando non era più in grado di aprirli perché era divorato dal cancro. Quanto mi sono arrabbiata quando ho scoperto, diversi anni dopo, che i supereroi del balcone avevano fatto anche cose che i supereroi semplicemente non dovrebbero fare. Che tradivano, mentivano e correvano dietro alle donne come tutti gli altri. Li odiai per questo come è possibile odiare solo chi ha intagliato per te pupazzi nei noccioli di avocado. Perseverai in quest’odio per alcuni anni tornai più e più volte sul balcone ostinandomi a domandare che cos’era accaduto là, senza capire che nella fabbrica dei miti domande di questo tipo fanno inevitabilmente inceppare i macchinari. Poi l’odio si calmò e sopravvenne la nostalgia. La nostalgia è lo struggimento nei confronti di una casa lontana e dai tempi di Odisseo non desideriamo altro se non tornare all’isola che abbiamo lasciato. Ma a volte non c’è alcun bisogno di abbandonare l’isola per provarla. Ci si può sedere su quello stesso balcone su cui sedevano allora i supereroi in pantaloncini e canottiera, sbucciare un’arancia con il temperino abbandonato dal suo proprietario nel corso di una visita annebbiata dall’Alzheimer, e provare nostalgia. E di là, a partire dalla nostalgia, cominciare a scrivere. Scrivere per sapere che cosa era successo davvero, o scrivere per non saperlo. Scrivere a partire da un sentimento di stupore sul fatto che quegli uomini, sui quali sono stati scritti così tanti libri, riescono ogni volta a sfuggire alle parole.
Un fenomeno evidente nella tua scrittura è un uso costante dell’ironia.
Penso che l’ironia sia necessaria quando si scrive di un periodo così mitologico come la fondazione di Israele, ma bisogna stare attenti al dosaggio, come con il sale. Il nostro rapporto con i miti assomiglia a quello che abbiamo con i nostri genitori. All’inizio è qualcosa di leggendario, che veneri, a cui aspiri. Poi arriva il momento terribile in cui scopri che tuo padre non è Dio e nemmeno il suo vice. Questo è il momento in cui scalci, ti arrabbi, afferri ogni vacca sacra che si muove nel pascolo e la macelli. Ma dopo, se hai fortuna, impari a perdonare i tuoi genitori e i tuoi miti, a stare su questo punto di sutura tra la stima da un lato e il disprezzo dall’altro, tra la serietà abissale e la sottile ironia. E’ il momento in cui dici sì, sono uomini, e sono disposto ad accettarli così. Pieni di difetti, umani, ma dopotutto i miei genitori. Questa è anche la mia posizione in relazione all’epoca di cui scrivo. Da un lato non ho dubbi che fossero uomini fuori dal comune ed era per me importante descriverli in quanto tali. Io credo veramente che cavalcassero su leoni alati sopra la valle di Jezreel. Che masticassero comete a colazione. E d’altro canto non ho dubbio che condividessero tute le debolezze delle persone comuni.
Vi è un approccio esplicito e diretto alle questioni inerenti al corpo, vuoi dirci qualcosa di questo?
Due settimane prima che il libro fosse pubblicato, ho contattato l’editor, il professor Yigal Schwartz. Mi disturbava che il libro fosse troppo carico di sessualità. Gli ho chiesto se non fosse meglio frenare un po’, calare il dosaggio di riferimenti erotici. Lui si è messo a gridare: «Parli così perché hai in testa una qualche nonna e hai paura di quello ti dirà, non sono disposto a censurare un bel niente!». Aveva ragione. Un’altra questione è che non volevo davvero scrivere di sessualità solo dal punto di vista maschile. Non mi sembra giusto. Non penso che siano state le donne della mia generazione a inventare il piacere sessuale, i tradimenti, l’autoerotismo. Basta aprire il Tanakh. L’idea che se io non ricevo un figlio da uno io faccia un figlio con un altro è un’idea vecchia di 3000 anni.
C’è un legame tra i tuoi studi di psicologia e la tua scrittura?
Entrambe ti costringono a domandare sempre «perché le persone fanno quello che fanno? Invece di giudicare un personaggio come Markovich dicendo che è una carogna e procedere oltre, sei costretto a cercare di capirlo, a metterti nei suoi panni.
Nel libro c’è un’intenzione abbastanza chiara di distruggere la retorica legata al periodo e ai suoi eroi, mentre ci sono descrizioni altisonanti ed esagerate di tutto ciò che riguarda gli aspetti più semplici della vita.
Il libro parla di un periodo eroico nella storia del popolo ebraico, un periodo mitologico, leggendario. Ho cercato un linguaggio in cui riecheggiassero eroismo e leggenda, e ho letto molto il Tanakh per cercare ispirazione. Con questo mi piace molto guardare da vicino anche i lati in apparenza prosaici, sono contraria alla divisione tra argomenti «sacri» e «profani».
Markovich è di fatto un antieroe, un altro dei protagonisti entra in crisi dopo aver ucciso per errore una donna araba con il suo bimbo, una delle eroine parla solo ebraico ma poi scrive poesie in tedesco e compie un gesto estremo il giorno della fondazione dello Stato d’Israele. Si potrebbe anche vedere un parallelismo tra il cranio dell’anziano ebreo fracassato dai giovani austriaci e quello del ragazzo arabo menzionato nel primo capitolo. C’è una tendenza post-sionista in ciò?O respingi questa definizione?
Non penso che sia un romanzo post-sionista. Credo nel diritto di Israele all’esistenza come Stato del popolo ebraico. Ma non penso che sia lo Stato soltanto del popolo ebraico, è anche quello della minoranza araba che ci vive e che deve avere gli stessi diritti. Il fatto che io creda che debba nascere uno Stato palestinese non sminuisce il mio senso di appartenenza a Israele. Per ritornare alla letteratura, il mio romanzo si propone di osservare l’impresa sionista con occhi disincantati, ma pieni d’amore. Non è un disincanto amaro o un desiderio di critica distruttiva, è uno sguardo complesso. Penso che l’amore più completo, qualunque ne sia l’oggetto, sia quello che ha il coraggio di passare da una venerazione infantile a una sobria, realistica intimità. Non c’è dubbio che la proclamazione dello Stato sia uno storico giorno di festa, ma anche negli storici giorni di festa ci sono persone cui, proprio in quel momento, si spezza il cuore. Come alle festicciole di compleanno c’è sempre il bambino che all’improvviso si mette a piangere in un angolino. Ho voluto raccontare anche del pianto oltre che della gioia.
Vorremmo sapere qualcosa del nuovo romanzo, Svegliare i leoni, che uscirà a breve in traduzione italiana.
Al centro del romanzo c’è il Dottor Eytan Grin, medico a Be’er Sheva. Alla fine di un turno faticoso sale in macchina e investe un profugo eritreo uccidendolo. Lo abbandona dov’è e torna a casa dalla moglie e dai figli che dormono tranquilli. Ma l’indomani la moglie del profugo bussa alla sua porta…
Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen
(25 dicembre 2016)