Appelfeld: “Qui in Israele, lo stesso terrore di Berlino”
“Occorre comprendere che questo terrorismo che insanguina Israele è lo stesso che colpisce le vostre città europee. Gli estremisti islamici fanno la guerra al mondo occidentale e a Israele, che ne rappresenta l’avamposto in Medio Oriente. Non c’è differenza tra le stragi di Berlino, Parigi, Bruxelles o Gerusalemme”. Aharon Appelfeld da sempre racconta nei suoi libri la tragedia degli ebrei al tempo del nazismo e anche commentando le cronache del presente non nasconde di essere pesantemente condizionato dal suo passato. Aveva nove anni nel 1941, quando la sua famiglia fu sterminata nel suo villaggio di Jadova (allora Romania, oggi Ucraina). Lui si nascose nella foresta, riuscì a unirsi a un gruppo di partigiani e sopravvivere prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, dove venne preso come cuoco al seguito delle truppe. Emigrato in Israele divenne scrittore. È autore di 46 romanzi. Dice: “Sto scrivendo il 47esimo che Condizionamenti I palestinesi ormai sono sempre più condizionati dal fondamentalismo islamico sarà la saga dell’ebreo a cavallo del nuove millennio”.
Non crede che Isis sia diverso dagli attivisti palestinesi? Se non altro i movimenti palestinesi precedono di gran lunga Al Qaeda e il Califfato.
“Vero. Ma sempre di più i palestinesi sono condizionati dal fondamentalismo islamico. Il terrorismo è il loro pane quotidiano. E con i terroristi non si tratta; è impossibile avviare un dialogo politico concreto sotto la minaccia della violenza. La stessa Hamas oggi guarda con simpatia crescente ai fanatici seguaci di Abu Balr Al Baghdadi”.
In questo ultimo attentato a Gerusalemme l’obiettivo erano soldati israeliani: agli occhi anche dei palestinesi moderati è più legittimo che non uccidere civili.
“Non concordo. Non ci vedo alcuna legittimità. Si tratta di un attentato a sangue freddo nel mezzo di un nucleo urbano. Va condannato sempre e comunque. Io sono un fedele sostenitore del dialogo a tutti i costi. Sono un liberale che crede nei negoziati. Ma occorre che esistano le condizioni per poterli portare avanti”.
Eppure, la parte araba di Gerusalemme Est è sempre più accerchiata dai nuovi Si tratta di un attentato a sangue freddo nel mezzo di un nucleo urbano. In Cisgiordania le colonie continuano a crescere. Di fatto la politica israeliana tende a rendere impossibile qualsiasi compromesso territoriale e dunque il dialogo. Non crede?
“Occorre continuare a lavorare per il compromesso. E compromesso per definizione significa che noi non avremo tutto, ma neppure loro lo avranno. Non sarà possibile tomare al vecchio confine del 1967, ma noi non potremo annettere l’intera Cisgiordania. Ci saranno due Stati separati. Alcune colonie ebraiche dovranno per forza venire smantellate. Però non tutte”.
Pensa che alcune colonie possano restare sotto una futura sovranità palestinese?
“E perché no? Abbiamo tra noi tanti arabi israeliani che votano alla Knesset e godono dei pieni diritti civili e politici. Non vedo per quale motivo non potrebbero esserci anche più di duecentomila cittadini ebrei di uno Stato palestinese. Quando ero bambino i nazisti imposero la Judenrein, la pulizia etnica antiebraica. Oggi non vedo perché la debbano applicare gli arabi nei confronti degli israeliani”.
Tanti osservatori reputano che ormai è irreversibile: si stanno creando le basi per uno Stato binazionale tra il Mediterraneo e il Giordano. Che ne pensa?
“Non ci credo. Oltre l’80% degli ebrei israeliani vive ancora all’interno dei confini del 1967. Per noi annettere oltre due milioni di arabi sarebbe una catastrofe, ne soffrirebbe la stessa democrazia israeliana. Occorre invece a tutti i costi riprendere il processo negoziale con i palestinesi, non vedo alcuna alternativa al dialogo”.
Teme gli estremisti ebrei?
“Certo che li temo e molto. Ma sono poche migliaia. La maggioranza degli israeliani crede nel compromesso. Abbiamo un esercito forte che ci difende. Non siamo imbelli come nel 1939. Non d sarà mai più un altro Olocausto. Abbiamo la stabilità e l’energia per cercare una soluzione politica”
Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera, 9 gennaio 2017
(15 gennaio 2017)