Periscopio – Eccomi
In giorni in cui si fa un gran parlare dell’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele, dei cambiamenti che verranno con la presidenza di Trump, delle posizioni in materia degli ebrei americani e, in generale, del loro sentimento di appartenenza e solidarietà nei confronti dello Stato ebraico, di grande interesse può risultare la lettura del nuovo, imponente romanzo di Jonathan Safran Foer, Here I am, pubblicato in Italia col titolo Eccomi (l’espressione che avrebbe usato Abramo di fonte alla richiesta del Signore di offrire in sacrificio suo figlio), uno dei cui principali temi è proprio quello dell’identità ebraica, e del differente modo in cui essa può essere percepita in Israele e nella diaspora.
Diciamo innanzitutto che il testo, sia pur di notevole impatto e respiro, non pare tra i più felici del grande scrittore, in quanto questa tematica identitaria – che offre spunti di grande profondità e suggestione – non pare legarsi compiutamente con il tema principale della narrazione, che è invece imperniato su una vicenda familiare di amore, incomprensione, crisi e allontanamento. Si tratta, in pratica, a mio giudizio, di due argomenti alquanto distinti, che avrebbero potuto dare forma, forse con migliori risultati, a due diversi romanzi.
Per quanto riguarda il problema che ci riguarda in questa sede, ossia il rapporto con Israele come elemento identitario, un merito del libro è quello di descrivere questo senso di appartenenza in modo non retorico e semplicistico, ma complesso e problematico. I due protagonisti maschili del romanzo, i cugini Jakob e Tamir (il primo residente negli Stati Uniti, il secondo in Israele), si trovano a stare insieme, in America, nei giorni convulsi in cui lo Stato ebraico, colpito da un devastante terremoto e poi da una guerra di sterminio, viene minacciato di distruzione, e tutti gli ebrei del mondo sono invitati a correre in soccorso del Paese in pericolo. Le diverse sensibilità culturali e opinioni politiche, in questo momento drammatico, spingono a una affannosa e dolorosa ricerca interiore su cosa significhi, per un uomo, avere un fermo punto di riferimento umano e spirituale, una “casa” dell’anima che permetta di riconoscersi, di percepire il significato della propria esistenza e per la quale possa addirittura valere la pena rischiare la vita. Ma l’amore per Israele, e il senso della propria ebraicità, non sollecitano nei due cugini risposte uguali, né univoche: non sentono entrambi, nello stesso modo, le proprie sorti legate a quelle della “casa” Israele, non ritengono entrambi, nello stesso modo, che sia giusto e naturale sacrificare la propria vita per essa. E, di tutti gli ebrei del mondo, in età di combattere, che sono invitati a correre in difesa della “casa” in pericolo, soltanto una minoranza risponde positivamente all’appello. Ed è del tutto verosimile che, nel caso – malauguratamente – una siffatta circostanza dovesse veramente proporsi nella realtà, la risposta della diaspora sarebbe diversificata, divisa tra sostegno attivo, solidarietà a distanza, e anche, in una qualche misura, freddezza o indifferenza.
Il romanzo non è consolatorio, non è confortante, e non pare offrire l’idea che avere una “casa”, sia pure lontana e ideale, basti a dare un significato alla propria esistenza. Né che la concezione di tale appartenenza sia un fattore unificante per il popolo ebraico: quando i nonni dei due cugini, scampati alla Shoah, decidono di costruire una nuova vita lontano dalla crudele Europa, la diversa scelta significa una irriducibile diversità esistenziale: quello che andò in America non capì la decisione del fratello, mentre l’altro, che scelse Israele, “lo capì benissimo, ma non lo perdonò mai”.
Ma la ricerca della propria identità, naturalmente, non riguarda solo il popolo ebraico, anche se lo scrittore, nel suo romanzo, non affronta il problema di cosa possa significare, per un gentile, l’idea di Israele. Ebrei e gentili, accomunati in questa interrogazione affannosa, potranno andare insieme incontro a delusione, fallimenti, solitudine. Un viaggio come quello di Enea raramente permette di costruire un nuovo mondo, e un viaggio come quello di Ulisse ben di rado fa davvero ritrovare, intatte, la casa e la sposa abbandonate. Ma – ed è questo che ci pare il significato più vero del romanzo -, quantunque la ricerca della “casa” possa rivelarsi deludente e dolorosa, è in tale duro percorso che si annida il senso profondo dell’essere uomini.
Francesco Lucrezi, storico
(18 gennaio 2017)