Majorana e Nietzsche nei libri

Valerio Fiandra“Due esempi di Economia della Scrittura” così potrei intitolare l’esercizio con doppio salto vitale che provo a eseguire oggi, a proposito di due libri di poche pagine e molto contenuto, scritti con esemplare Cura della Casa della Scrittura: (‘Economia’ viene infatti dal greco οικονομία, che vuol dire ‘Cura della Casa’ – e se ridete amaro, vi capisco).
Dalla sera del 25 marzo del 1938, Ettore Majorana scompare. Il più promettente giovane fisico italiano – Enrico Fermi lo considerava un genio – fa letteralmente perdere le sue tracce, o ancor meglio, le confonde, aprendo così – suo malgrado – il Caso che porta il suo cognome. Suicidio, fuga, entrata in monastero ? Sono state avanzate molte ipotesi, e nessuna provata. Come scrive Giorgio Agamben, “…la scomparsa di Majorana è altrettanto certa quanto improbabile (nel senso letterale del termine: essa non può essere in alcun modo provata e accertata sul piano dei fatti)”. Sul perché si sono esercitati in molti, e non vanamente, ma finora solo Leonardo Sciascia – nel suo libro del 1975 – era riuscito a configurare una tesi che numerosi indizi, e la capacità letteraria del Siciliano, hanno saputo argomentare.
A Giorgio Agamben, però, non basta: sin dal titolo del suo Che cos’è reale, sposta l’attenzione sul grande tema della fisica e del vivere umano, quello della realtà e dell’apparenza. Sfruttando da maestro la sua cultura e le sue ben note capacità filologiche, Agamben scrive un saggio storico-filosofico-scientifico che incalza il lettore per ognuna delle 53 pagine del libro pubblicato da Neri Pozza. E – se non può né vuole risolvere l’enigma – offre un paesaggio amplificato che restituisce valore universale alla scelta individuale di Majorana, indicandone la valenza – utile anche e soprattutto oggi, quando i confini fra Scienza e Tecnologia sono talvolta sempre meno distinguibili.
Nell’estate del 1881, Friedrich Nietzsche è per la prima volta a Sils, in Alta Engandina; sta benone, come non mai – scrive al suo amico Peter Gast; una bella mattina esce di casa per la solita passeggiata, ma prima – come ogni esperto camminatore di quelle zone fa, consapevole della mutevolezza del tempo – prende con se il suo ombrello. Rosso. Forse lo stesso – anche se nel libro da cui ho tratto queste informazioni non tanto di colori si parla, quanto di forme e simboli – che dimenticherà sette anni dopo in Piazza Carlo Alberto a Torino. Certamente di un ombrello scrive in uno dei suoi ultimi ‘frammenti’ inediti (il 12.175 dell’edizione Colli Montinari), probabilmente vergato nei giorni seguenti al ‘bacio del cavallo’ del 28 dicembre 1888: : “Ho dimenticato il mio ombrello”.
Thomas Hürlimann, autore di L’ombrello di Nietzsche ( Marcos y Marcos, a cura di Mariagiorgia Ulbar, cui si deve anche un’accurata Nota di Traduzione) traccia e descrive nelle 60 pagine di questa sua conferenza-monologo teatrale l’arco temporale fra queste due date significative della biografia e dell’Opera del filosofo-profeta. Parla ai lettori come fossero amici in un Caffè, mescola – con abilità e leggerezza – vertiginose riflessioni e commenti su Nietzsche a aneddoti su di se e sul suo gatto Mufti, fino a un finale autobiografico e filosofico che svela e commuove.
L’essenzialità dei linguaggi dei due autori, la loro misura, la capacità di dire tutto senza dire troppo fanno di questi due libri anche dei veri e propri ‘Manuali di Scrittura’. E ce ne sarebbe un terzo, straordinario: Confabulations, di John Berger (Penguin), che mi auguro un editore italiano pubblichi presto, anche per potervelo raccomandare.

Valerio Fiandra

(16 febbraio 2017)