Poesia e musica rock, parole della piazza
Nissim Calderon insegna letteratura ebraica all’Università Ben Gurion nel Negev. Sabra, classe 1947, è autore prolifico. I suoi libri spaziano dalla letteratura alla poesia e alla musica pop contemporanea e presentano come fil rouge l’indagine inerente i rapporti tra questi differenti campi o, in altre parole, i rapporti tra la cosiddetta cultura alta, da una parte, e popolare, dall’altra. È forse in filigrana a questa preoccupazione, a un tempo intellettuale e sociale, che va inteso il suo impegno politico. Calderon è infatti attivo nelle fila del Meretz, partito della sinistra sionista.
Negli anni passati ti sei occupato molto di poesia. Vorremmo sapere qualcosa sulle tendenze, i fenomeni più interessanti che sono emersi nella poesia ebraica degli ultimi anni. Di recente è uscito su Haaretz un lungo articolo dedicato ad Arspoetica, per esempio.
La poesia si sviluppa in modo molto ricco ma è passata dal centro della cultura ai margini: ci sono sempre più persone colte che non ne leggono, e la mancanza di un poeta che abbia una lingua comune in cui si riconoscano gli intellettuali si fa sentire da tempo. Penso che il fenomeno più interessante in tempi recenti sia la poesia nata sulla scorta della protesta politica del 2011, che portò nelle strade mezzo milione di persone che denunciavano l’impoverimento progressivo della classe media in Israele. La protesta è fallita sul piano politico, ma su quello letterario ha prodotto dopo di sé della poesia molto originale, la cui voce di spicco è, a mio parere, Tahel Frosh, autrice della raccolta Beza [Profitto]. E’ un tipo di poesia che ricorda quella di Whitman, con versi lunghi, di ampio respiro. Nel suo caso il fattore economico diventa soggetto dell’espressione poetica. Accanto a questo ci sono fenomeni come Arspoetica, che ai miei occhi sono puramente sociologici, poco significativi dal punto di vista letterario. In Arspoetica emerge il lato negativo della protesta sociale, quello della frammentazione: i mizrahim a parte, le donne a parte, gli omosessuali a parte, gli arabi a parte. Ai miei occhi questa politica e questa cultura dell’identità sono negative, perché senza unione non si ottiene nulla. La poesia che parla soltanto in nome dei mizrahim non tiene conto della situazione odierna: la classe sociale oggi più povera in Israele è costituita dagli arabi e poi ci sono gli ebrei provenienti dall’ex Unione sovietica e da alcune zone dell’Asia. In secondo luogo è vero che cinquant’anni fa i mizrahim erano oggetto di molti pregiudizi, ma adesso la situazione è cambiata. Con questo modo di procedere gli esponenti di Ars Poetica vanno all’indietro, guardano al passato e alle sue ferite. Questo dal punto di vista politico. Dal punto di vista letterario odiano Natan Zach, perché è ashkenazita, ma la loro poesia, la loro estetica, la loro metrica sono figlie legittime proprio di Natan Zach. Ars Poetica è un fenomeno sociologico che si serve della poesia. Ci sono poi anche tra loro voci dotate, come Shlomi Hatuka, che personalmente ritengo essere un bravo poeta, anche se non sono d’accordo con le sue opinioni, proprio per via del separatismo cui accennavo.
E per quanto riguarda altre forme meno canoniche di espressione?
Vedo sviluppi notevoli nel rock, un campo nel quale ci sono autori con posizioni politiche interessanti. Penso a Rona Kenan e al suo nuovo album, per esempio, o a Shlomi Shabat. C’è anche un altro fenomeno, quello dello spoken word, in cui si sale sul palco e si parla, una sorta di discorso ritmato, di rap, che sta avendo un grande successo di pubblico, ed è qualcosa di molto recente in Israele.
Ti occupi sia di poesia “alta” sia di rock e cultura popolare in genere, cosa pensi dei rapporti tra le due in Israele?
L’avvicinamento tra cultura alta e cultura popolare si sta sviluppando moltissimo nella musica, nel cinema e nella televisione. Per esempio abbiamo serie televisive che una volta erano considerate spazzatura, sciocchezze, mentre ora hanno raggiunto una qualità notevole. Penso per esempio a Zaguri imperia che mescola la cultura di strada di Be’er Sheva con Edipo: il risultato è affascinante. Emergono generi nuovi, e la mescolanza di culture nella società israeliana, tra oriente e occidente, tra alto e basso, viene portata avanti in modo molto interessante, magari avvenisse così anche nella nostra politica.
Ti sei occupato personalmente di politica, non è vero?
Sì e lo faccio ancora, ma è un periodo molto difficile. La gente dispera della pace, rinuncia alla giustizia sociale, siamo una delle società più polarizzate tra ricchi e poveri del mondo occidentale. Sono giorni in cui è difficile organizzarsi, scendere in piazza a manifestare, ma tuttavia lo si fa e anche se non si sa quale porta si aprirà, bisogna continuare a lottare.
Che cosa pensi dei rapporti con l’Europa?
Penso che siano molto importanti. Non è un bene per la cultura israeliana che il suo punto di riferimento sia rappresentato quasi esclusivamente dagli Stati Uniti e che i nostri ragazzi che vogliono studiare all’estero prendano in considerazione solo le università americane. Non intendo sminuirne il valore, ma penso che la cultura europea sia più vicina a noi, siamo un popolo che viene dall’Europa, che aveva con essa un rapporto profondo, e questo vale anche per i mizrahim, che avevano una cultura francese o italiana nel Nord Africa, o inglese in Iraq. Ho sempre pensato che si debba lavorare molto al legame con l’Europa. Qui si traduce tantissimo dall’italiano, dallo spagnolo, dall’olandese, dal francese. In questo campo siamo in ottime condizioni, ma non abbastanza nelle relazioni spirituali, di pensiero, intellettuali. Siamo ancora orientati verso gli Stati Uniti. Bisogna bilanciare.
Pensi che ciò sia dovuto al fatto che il rapporto con gli Stati Uniti è più solido di quello con l’Unione Europea? Pensi che in qualche modo l’atteggiamento di ostilità nei confronti di Israele che è frequente in Europa sia il segno di un ritorno dell’antisemitismo?
Senz’altro c’è più antisemitismo adesso di quanto non ce ne fosse dieci anni fa, ma si annida in luoghi che non sempre il governo di Israele vuole considerare: tra i sostenitori di Trump ci sono fondamentalisti protestanti estremamente antisemiti, nel senso che vorrebbero che tutti gli ebrei si convertissero al cristianesimo. Vedo in Francia elementi antisemiti e lo stesso si può dire della destra olandese. Ma quando il governo d’Israele descrive ogni opposizione agli insediamenti e all’occupazione come antisemitismo, fa un danno. L’Europa sa che cosa è il diritto all’autodeterminazione, è basata sugli stati nazionali, vi è una nazione italiana e uno stato italiano, una nazione francese e uno stato francese. L’America questo non lo capisce, non è un vero stato nazionale. Durante la guerra d’indipendenza le armi con cui abbiamo salvato lo Stato erano cecoslovacche, sovietiche, non americane. Poi ci fu un periodo in cui eravamo sostenuti dai francesi, gli americani erano contrari alle centrali atomiche. Il mondo cambia, corre, costruire tutto sul fatto che c’è un impero che è sempre dalla tua parte non è ebraico; gli ebrei hanno attraversato molti imperi, dai tempi degli egizi, degli assiri e dei babilonesi ne abbiamo visti molti, ma ora si direbbe che siamo diventati ottusi, tutto il mondo ci dice che l’occupazione non va bene e noi ci attacchiamo al fatto che gli Stati Uniti ci appoggiano, che Trump ci appoggia, ma anche Trump se ne andrà un giorno. Bisogna ascoltare l’Europa quando dice che l’autodeterminazione dei popoli vale per gli ebrei e vale nella stessa misura per i palestinesi. Per cui i legami con l’Europa sono importanti per noi sia dal punto di vista intellettuale che politico.
Vorremmo sapere del tuo nuovo libro, la biografia di Meir Ariel.
Il libro parte dal ruolo del cantautore. Io ho preso in considerazione il primo, quello che davvero portò questa figura per la prima volta nella cultura israeliana, Meir Ariel. Negli anni ho condotto ricerche sulla sua biografia, ho incontrato più di cento persone che mi hanno raccontato della sua vita, ho consultato il suo archivio. Scriveva quasi ogni giorno, una mole impressionante di opere, ho esaminato tutte le interviste, numerosissime, ho studiato la sua musica insieme a un compositore, e ho integrato tutto il materiale. Così ho scritto una biografia che è anche una monografia, un’analisi della sua opera. Mi interessava soprattutto il suo modo di interpretare l’estetica del cantautore, che è un’estetica di sincerità, di autenticità. Ho studiato a quali fonti ebraiche si è ispirato, si arriva fino al Tanakh, al Talmud, ai midrashim, alla poesia medievale. È una figura molto fascinosa perché è l’inventore del blues israeliano. È stata una ricerca appassionante e con mia gran gioia ha avuto anche un riscontro di pubblico, è già da 10 settimane nella lista dei bestseller, ci sono molte serate, eventi, incontri.
Ci dici qualcosa di più su questa figura?
È diventato molto più famoso dopo essere morto che da vivo, da vivo aveva un pubblico limitato, visto che le sue canzoni sono piuttosto ermetiche, piene di enigmi, ma chi se ne intende di musica lo ha sempre stimato. In un certo senso è il nostro Bob Dylan e sicuramente ne è stato molto influenzato, lo ha tradotto, cantato, ha scritto canzoni su di lui. Ora tutti i grandi cantanti in Israele interpretano le canzoni di Meir Ariel, lo considerano un padre fondatore di quel genere musicale. Adesso tutti lo conoscono e sono curiosi di leggere la sua biografia.
Anna Linda Callow, Pagine Ebraiche 2017
(8 aprile 2017)