Marwan Barghouti, la politica del terrore
Nel maggio del 2004 Marwan Barghouti è stato condannato dai giudici israeliani a cinque ergastoli e quarant’anni di prigione perché, sotto suo ordine diretto, furono compiuti tre attentati terroristici in Israele: Barghouti, che 1994 costituì il gruppo terroristico Tanzim – affiliato a Fatah, il movimento palestinese guidato allora da Yasser Arafat -, ordinò gli attacchi al Seafood Market di Tel Aviv del 5 marzo 2002, in cui furono assassinate tre persone (Yosef Habi, 52 anni, Eli Dahan, 53 anni e il poliziotto Salim Barakat, 33 anni); quello alla stazione di servizio di Givat Ze’ev del 15 gennaio 2012 in cui morì Yoela Chen, 45 anni, e l’attacco sulla strada tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim del 12 giugno del 2001 in cui perse la vita il monaco greco-ortodosso Georgios Tsibouktzakis.
Sotto la guida di Barghouti, i terroristi di Tanzim furono tra i protagonisti della stagione di sangue e terrore della Seconda intifada, durante la quale centinaia di civili israeliani furono assassinati o gravemente feriti dalla violenza palestinese. Per questo vedere apparire il nome di Marwan Barghouti – che ha guidato il braccio armato di Fatah, le tristemente famose Brigate Al-Aqsa – in un editoriale di uno dei più autorevoli giornali del mondo, il New York Times (16 aprile 2017), ha sollevato forti proteste da parte di tutto l’arco politico israeliano e non solo. Per di più nella prima versione del testo, il terrorista palestinese veniva definito solo “leader e parlamentare” senza citare la condanna plurima per omicidio. “È un assassino. Chiamarlo politico è come considerare Bashar Assad un pediatra”, ha tuonato il Primo ministro d’Israele Benjamin Netanyahu, commentando la scelta editoriale del New York Times. “I redattori del giornale hanno dimenticato di dire che Barghouti è direttamente responsabile per l’omicidio di molti israeliani – ha ricordato il generale dell’esercito israeliano Yoav Mordechai, in un’intervista alla stampa locale – e che ha guidato le Brigate Al-Aqsa durante la Seconda intifada”. Quello che per una parte dell’opinione pubblica palestinese è un eroe e per le autorità israeliane un pericoloso terrorista, ha più volte invocato, anche dal carcere, attacchi proprio contro Israele.
Sul New York Times, Barghouti ha avuto però una possibilità unica, sottolinea l’editorialista di Yedioth Ahronoth Ben Dror-Yemini, quella di presentare la sua visione della realtà – distorta – e vedere le sue ragioni, con annesso appello ai detenuti palestinesi a fare uno sciopero della fame collettivo, riconosciute. “Barghouti non è in carcere perché ha combattuto contro l’occupazione o per la libertà e per la liberazione. – afferma Dror-Yemini – Barghouti scelse il terrore per combattere l’esistenza stessa di Israele come patria nazionale del popolo ebraico”. L’editorialista ricorda anche come inizialmente il capo delle Brigate Al-Aqsa sembrava una voce per la pace affidabile e vera – lo stesso Dror-Yemini lo aveva incontrato nei primi anni Novanta in quella veste – ma sottolinea anche come quest’ultimo abbia poi scelto la violenza e il terrorismo come modus operandi. “È possibile che, un giorno, Barghouti tornerà ad essere l’uomo che era. Lo spero. Inshallah. – scrive la firma di Yedioth Ahronoth – Ma ciò non giustifica la pubblicazione di un editoriale di un terrorista. Ciò non giustifica la pubblicazione di menzogne per giustificare uno sciopero della fame di assassini. Ciò non giustifica l’applicazione da parte di un autorevole giornale della logica due pesi e due misure. Questo non è il modo per far progredire la pace: questo è il modo per sostenere il terrore e la menzogna”.
Daniel Reichel @dreichelmoked
(19 aprile 2017)