Israele e noi, quando la critica serve per costruire
Per chi voglia mantenere un filo di equilibrio e di autonomo senso critico di fronte agli sviluppi politici nel mondo e in particolare in Medio Oriente, questi sono tempi difficili. I recenti risultati elettorali nel Regno Uniti e negli Stati Uniti e le emergenti prospettive politiche in molti paesi europei indicano una forte recessione rispetto a due tendenze che avevano caratterizzato gli ultimi decenni. Da un lato, la costruzione di processi politici e di istituzioni internazionali perseguiva l’obiettivo di aumentare la solidarietà e di limitare il rischio di conflitti. D’altra parte emergeva una maggiore attenzione nei confronti dei diritti civili e dell’eguaglianza dei cittadini sostenuta dalle istituzioni delle democrazie avanzate. Il terzo piede di questo tripode che ha dominato la seconda metà del 20° secolo è stato uno sviluppo economico che ha fatto enormemente migliorare il livello di vita della popolazione. Lo Stato d’Israele ha partecipato attivamente e a volte in prima fila a queste tre tendenze.
Va riconosciuto che tutto ciò non è stato sufficiente a risolvere i problemi delle società contemporanee, ma ha per lo meno alimentato molti decenni di speranza per un mondo migliore e più stabile. Tuttavia, la mancanza di un’equa distribuzione della prosperità economica ha generato crescente scontento e ha innestato un ampio movimento di destabilizzazione politica. Le tendenze recessive in corso conducono all’ascesa di candidati politici populisti, nazionalisti e xenofobi, negli Stati Uniti col Presidente Trump, nell’Unione Europea con Brexit, Le Pen, Wilders, Salvini e Grillo, in Europa orientale con Putin, in Medio Oriente con Erdogan e tanti altri. Un po’ dappertutto emergono regimi più autoritari, rapporti internazionali più tesi, legislazioni sociali meno egualitarie e maggiormente discriminatorie nei confronti di minoranze, di gruppi, o comunque di “altri” che non fanno parte della nazione, dell’etnia, della religione dominante in un determinato luogo. Anche di queste tendenze recessive lo Stato d’Israele sembra essere parte integrante. I fatti che possono dimostrare quest’ultima asserzione sono numerosi e perfino clamorosi. Esempi preoccupanti sono l’assalto del potere parlamentare contro il potere giudiziario e la sua indipendenza; la costante intromissione del primo ministro (che funge in pratica anche da ministro delle comunicazioni) nella direzione dei canali televisivi e della stampa quotidiana, e quindi in definitiva nella libertà dell’informazione; le proposte di legislazione più dura circa i reati di opinione; un’interpretazione più rigorosa del diritto rabbinico rispetto ad altre interpretazioni ugualmente valide del medesimo diritto; e perfino l’ingerenza del Ministro degli Affari Culturali sul tipo di canzonette che la radio pubblica dovrebbe trasmettere. L’affermazione, fin qui incontestabile, che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, diventa quotidianamente meno certa, mentre sembrano ridursi le differenze nei confronti di altre democrazie come quella egiziana o quella turca. E tutto questo se solo accettiamo l’interpretazione data al concetto di democrazia da parte di distinti membri della coalizione governativa israeliana secondo cui il parametro determinante di una democrazia è l’esistenza di un voto popolare di maggioranza – senza ulteriori meccanismi di in equilibrio fra i diversi poteri e di rispetto per le minoranze.
Ma non è tanto su questi fatti che vogliamo qui soffermarci, quanto sul dilemma e sulla sofferenza di chi è abituato per educazione e per scelta a militare per e con Israele, senza peraltro mai rinunciare a una presentazione dei fatti e delle opinioni che sia allo stesso tempo obiettiva e sostenuta da fonti concrete. Il dilemma dunque è fra denunciare ciò che nel discorso pubblico israeliano appare a molti come una grave involuzione, col rischio di essere fraintesi e strumentalizzati, o al limite – come ci è stato fatto notare – essere citati su siti anti-israeliani di ispirazione iraniana o neonazista. Oppure lasciar perdere, non intervenire, non reagire, non parlare di politica, occuparsi di questioni più frivole come magari la nascita di un piccolo rinoceronte al safari di Tel Aviv o, più costruttive, come l’ultima scoperta nella lotta contro il cancro da parte di una scienziata israeliana. Meglio occuparsi del colore dei capelli del Primo Ministro che non della sua conduzione politica del paese, della sua incapacità esterna di lanciare un vero progetto per il futuro del Medio Oriente, della sua capacità interna di aizzare gli uni contro gli altri e di creare un vuoto di dirigenti attorno a se stesso, o infine degli scandali e delle inchieste della polizia che lo coinvolgono – dai sigari in proprio ai gioielli della moglie, dal controllo della stampa all’acquisto di sottomarini dalla Thyssenkrupp senza bando di concorso.
Una circostanza ineludibile su cui inevitabilmente la discussione è aperta con molte diverse opinioni sono le celebrazioni dei 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni che si avvicinano. Cresce la frustrazione di chi era presente in quello storico momento e osserva la distorsione del discorso pubblico e la strumentalizzazione politica dei fatti e del loro significato. Poche persone a dire il vero possono dire: io c’ero, ho visto e conosco le cose di prima mano. Chi non c’era non può pretendere di insegnare o di spiegare a chi c’era che cosa è realmente avvenuto e perché. Dell’odierna popolazione israeliana totale (ebraica e araba) di oltre 8 milioni e mezzo, si può valutare che nel 1967 erano già nati e già vivevano nel paese non più di un milione di ebrei e 200.000 arabi, ossia meno del 15 % del totale. Se togliamo i bimbi piccoli, meno di un milione di persone possono avere dei ricordi vivi e reali degli avvenimenti di quei giorni, delle battaglie sul terreno, in cielo e in mare, e dei giorni di forte tensione che li avevano preceduti. Per tutti gli altri milioni che oggi vivono in Israele, la guerra del giugno 1967 è storia appresa sui libri e attraverso i media. Per gli otto milioni di ebrei che vivevano e vivono tuttora fuori da Israele, il rapporto con le narrative degli avvenimenti di quei giorni di mezzo secolo fa è ancora più indiretto e imperfetto, sommerso con infinite mediazioni e manipolazioni dall’aggressiva e spesso viziosa dialettica politica dei rispettivi paesi. Suscitano un benevolo sorriso quei nostri amici e conoscenti che allora stavano da una parte e oggi stanno dall’altra. Il 5 giugno 1967 – o magari quindici anni dopo, il 5 giugno 1982 durante la guerra in Libano – contestavano furiosamente la politica israeliana perché erano filo-moscoviti, o trozkisti, o cinesi, mentre oggi sono in prima fila nel supportare ogni minuzia delle pratiche o delle dichiarazioni del governo in carica. Chi era presente in Israele nel giugno del 1967, inclusi i volontari che accorsero qui nel momento del bisogno, può testimoniare in modo assolutamente attendibile che la guerra dei sei giorni è stata combattuta da Israele per difendere il paese – vale la pena di ripeterlo: Israele nei confini del 5 giugno 1967, prima dell’occupazione dei territori – dalla minaccia di distruzione da parte di Nasser e degli altri paesi arabi. Minaccia di distruzione economica e fisica che era stata annunciata dal presidente egiziano con misure concrete come il blocco degli Stretti di Tiran e il licenziamento delle forze dell’ONU a Gaza, e non solamente con le dichiarazioni iperboliche dei suoi organi di propaganda. La guerra dei sei giorni fu una battaglia per la sopravvivenza di Israele e della sua funzione come nucleo vitale di tutto il popolo ebraico. Gli esiti vittoriosi dello scontro militare accesero la grande speranza che questo fosse l’atto conclusivo del conflitto in Medio Oriente, e che potesse aprirsi un orizzonte di pace. L’opportunità recuperata di accesso al Muro del Pianto e alla Spianata del Tempio costituì un momento di enorme emozione e suggestione. Ma fin qui, e non oltre questo. Le voci che oggi parlano della liberazione di Gerusalemme Est, della Giudea, della Samaria, delle colline di Benyamin, di Efraim e del Golan come obiettivi della Guerra dei Sei Giorni sono solo una caricatura posteriore di ciò che avvenne in realtà. Israele rimane il paese della nostra speranza e del nostro futuro. Per questo un’informazione a più voci e una critica serena e costruttiva sono necessarie come non mai.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(30 aprile 2017)