Pagine Ebraiche al Salone di Torino
Ad Auschwitz arrivarono le fiabe

34571010112_d29f447939_z (1)4554. È il numero che Batshewa Dagan porta orgogliosamente tatuato sul braccio e con il quale vuole morire, “perché – dice – è la mia storia”.
Il significato di quelle cifre, la psicologa e poetessa ultranovantenne lo ha spiegato stamani al pubblico – in larga parte studenti – del Salone Internazionale del Libro di Torino, intervenendo alla presentazione del libro “Fiabe da Auschwitz”, fresco di stampa anche in italiano.
Le sei favole protagoniste dell’incontro, promosso dall’Associazione Treno della Memoria, furono scritte da ventisette ingegneri prigionieri del campo di Auschwitz: la scoperta dei disegni dei bambini vittime dei nazisti diede loro l’ispirazione per costruire di nascosto, attorno a quegli schizzi, delle storie per i figli rimasti a casa, approfittando della carta copiativa e delle penne cui avevano accesso negli uffici del lager.
L’accostamento delle parole “fiabe” e “Auschwitz” può suonare come un ossimoro, ma è anche la rara e preziosa occasione per sentire Batshewa ripercorrere i venti, drammatici mesi della sua permanenza nel lager, scanditi dalla paura schiacciante di morire da un momento all’altro: “Quando mi deportarono, ero una bella studentessa liceale e non immaginavo che cosa mi aspettasse. Non esiste, nel dizionario, un termine che possa descrivere la privazione della dignità che abbiamo subito. È un argomento molto difficile, che tanti non conoscono. E per questo voglio parlarne, rivolgendomi soprattutto a chi esita a chiedere: domandate oggi, fatelo finché ci sono ancora dei testimoni come me che possono dire ‘io c’ero’”.
I ricordi della scrittrice procedono ordinati a partire dall’arrivo ad Auschwitz: “Dopo avermi rasato i capelli, mi assegnarono l’uniforme di un soldato morto. Non mi vedevo, ma vedevo le mie compagne e pensavo di avere un aspetto simile al loro, spettrale. La nostra baracca – prosegue Batshewa – era una stalla per 60 cavalli, ma noi eravamo tra le 800 e le 1.000 donne, costrette a dormire su tavole di legno. Parlavamo lingue diverse e per comunicare usavamo i gesti. Ci chiedevamo se avremmo lavorato, e se, ammalandoci, avremmo avuto delle medicine”.
Dagan era stata separata dai genitori e dalla sorella, portati a Treblinka: “Ero rimasta sola, ma volevo vivere e raccontare al mondo quello che stavo passando”. Compreso lo straziante capitolo del lavoro al campo: “Il mio primo incarico consisteva nel raccogliere a mani nude le ortiche, che servivano ai nazisti per preparare il caffè e le zuppe. Ci svegliavano alle 4 e alle 5 c’era l’appello. Se qualcuno mancava, dovevamo rimanere in piedi per ore ad aspettare che i conti tornassero. Il nostro supervisore – il cui volto, congelato in una foto al British Museum, per un attimo pare materializzarsi davanti agli occhi di Batshewa – era una donna molto cattiva. Quando venne arrestata e processata, gli inglesi, che poi la impiccarono, le chiesero se si fosse pentita e lei rispose di no, di averlo fatto per la patria”. Il secondo compito, svolto per circa un mese da Dagan, fu quello di raccogliere patate – “moltissimi chili” –, fino a quando non riuscì a farsi trasferire in infermeria da una cugina: “Qui dovevo portare fuori gli escrementi nei secchi e arrampicarmi sui letti dei ricoverati, per sentire se i loro corpi erano caldi o freddi”.
Alla fine, ad ammalarsi gravemente è la stessa Batshewa: “Con quaranta di febbre e la scabbia, ero diventata la candidata ideale per la camera a gas e infatti mi ritrovai presto in fila per la morte. Ma un ufficiale mi vide e, sorridendomi, mi chiese che cosa ci facessi lì. Così potei tornare alla baracca, dove mi coprii tutto il corpo con le coperte, aspettando di guarire. Peccato che quasi non ci fosse cibo. Ci dividevamo una pagnotta in otto, mangiando pezzettini infinitesimi”.
Ma dalla sua, Batshewa, ha sempre avuto una straordinaria fame di vita e di conoscenza: “Quando i tedeschi occuparono la Polonia, chiusero le scuole, impedendo a quelli come me di continuare a studiare. Per questo ho sempre sentito il bisogno di studiare, leggere. Al campo ero circondata da molte lingue e volevo imparare, in particolare, il francese. Me lo insegnò una donna di Bruxelles e, anche se non avevamo libri, né quaderni o matite, riuscii a parlarlo fluentemente, mandando tutto a memoria. Quella signora mi diceva spesso che avrebbero presto bruciato me e il mio francese, ma io le rispondevo che sarei arsa felice di averlo appreso”.
Nel 1944 giunsero al campo molti ungheresi e Dagan passò al loro comando, chiamato “Canada” perché più ricco di altri: “Qui mi crebbero nuovamente i capelli. Ma era comunque dura, perché dovevamo selezionare i beni confiscati, che poi finivano ai poveri di Germania. E ad ogni indumento, scarpa, effetto personale, ci chiedevamo a chi fosse appartenuto e che fine avesse fatto quella persona”.
Prima della liberazione da parte dell’armata americana, quando pesa 40 chili e ha la tubercolosi, Batshewa fa in tempo a scoprire che alcuni prigionieri avevano scritto poesie e canzoni: “A dimostrazione del fatto che anche all’inferno si può decidere se stare dalla parte del bene o del male. Ed è anche per questo che le mie storie per bambini sono sempre a lieto fine: non voglio togliere ai miei piccoli lettori la fiducia nel prossimo”.

Daniela Modonesi

(18 maggio 2017)