Israele e i costi economici del conflitto
Lo Stato di Israele ha conseguito importanti e lusinghieri risultati in campo economico nei suoi primi 69 anni di vita: nonostante la sua relativamente “giovane età”, il reddito pro-capite è da qualche anno pari a quello dell’Italia (circa 37.000 dollari l’anno), economia di assai più antica vocazione industriale ma in declino da alcuni decenni. Ma lo stato di belligeranza con i palestinesi e il mondo arabo impone comunque dei costi, diretti e indiretti, assai elevati per l’economia: in assenza di questi costi la performance economica sarebbe ancora più brillante e il tenore di vita dei suoi abitanti, misurato con il reddito pro-capite, sarebbe di almeno il 35 per cento più elevato. È questa la tesi di Joseph Zeira, docente di economia politica a Tel Aviv e alla Luiss, che di recente ha tenuto dei seminari a Roma. Secondo Zeira i principali costi economici del conflitto sono tre: in primo luogo le spese militari, che incidono per il 7 per cento circa del reddito nazionale; in secondo luogo vi è una perdita di “capitale umano” arrecata dalla leva militare obbligatoria (3 anni per gli uomini, 2 per le donne), che si può stimare nel 6 per cento del reddito nazionale: in parole povere, la leva ha l’effetto di accorciare di circa 3-4 anni la vita lavorativa dei giovani israeliani (3 anni di leva più un anno circa di “stacco” per riprendersi dallo “stress” e iniziare gli studi o trovare lavoro).
Infine Zeira (nell’immagine) stima un terzo e assai importante costo del conflitto: la penuria di investimenti privati in capitale fisico, ossia fabbriche, macchinari e simili (non gli investimenti finanziari e immobiliari, che abbondano). Tale scarsità è evidenziata secondo l’economista dal confronto tra il volume di capitale industriale fisico negli Stati Uniti (150 per cento del reddito nazionale) e in Israele (100 per cento del reddito) nonché dal fatto che negli ultimi 20 anni il reddito pro-capite israeliano non si è avvicinato neanche di poco a quello degli USA , rimanendo fermo a un rapporto di due terzi (21.000 contro 31.000 dollari nel 1997, 37.000 contro 57.000 nel 2016). Da cosa dipende questa scarsità di investimenti e, di conseguenza di capitale fisico? Secondo Zeira e altri studiosi dipende dall’incertezza legata al conflitto, che scoraggia gli investimenti di lungo periodo e ridurrebbe il reddito nazionale del 20 per cento circa.
Sommando queste tre voci di costo e aggiungendone alcune altre più piccole (i sussidi agli insediamenti nei territori occupati e i costi della rete di sicurezza pubblica e privata anti-attentati) si arriva a un costo della “non-pace” pari al 35 per cento del reddito nazionale. Quanto sono affidabili e complete queste stime di Zeira? A giudizio di chi scrive si tratta di stime realistiche e forse approssimate per difetto: le stime dello studioso considerano solo in parte i mancati guadagni di reddito, potenzialmente elevatissimi, che scaturiscono dall’assenza di relazioni diplomatiche e commerciali con i paesi arabi e quelli musulmani; un’integrazione commerciale e finanziaria con questi paesi porterebbe con ogni probabilità Israele ad aumentare in via permanente il suo tasso di crescita.
Aviram Levy, economista
(4 giugno 2017)