La scintilla scocca fra le parole, la poesia di Agi Mishol
È curata da Anna Linda Callow e da Cosimo Nicolini Coen la prima edizione italiana delle poesie di Agi Mishol, considerata da molti la più importante poetessa israeliana vivente. Ricami su ferro – che sarà presentato oggi pomeriggio (ore 18.00) alla Claudiana dall’autrice, che dialogherà con i curatori del volume e Sara Ferrari, con letture di Miriam Camerini -, questo il titolo della raccolta da poco uscita per i tipi di Giuntina, con i testi pubblicati sia in italiano che in ebraico, è un volume in cui la scrittura è parte di quella stessa quotidianità raccontata nei versi. In Scrivere l’autrice ne racconta il senso più profondo: “La scrittura è la più tortuosa delle vie / per ricevere amore […] è chinarsi sulle parole / finché non si trasformano in porta / e allora farvi irruzione”. Come spiegano i curatori per lei la scrittura è importante come respirare, mangiare, dormire, e la riflette come in uno specchio. Ogni fatto, banale come importante, è mediato dal potere infinito delle parole. Si tratta anche di un’espressione d’amore radicale per l’ebraico, lingua che consente a Mishol di esprimere gli altri amori che strutturano una raccolta che non si pretende esaustiva ma costituisce un buon punto di partenza per far conoscere al pubblico italiano una delle voci poetiche maggiormente note e apprezzate in Israele, già tradotta in numerose lingue europee e non.
“Per le prime generazioni di poeti della letteratura ebraica moderna, la scrittura è stata non soltanto un ‘microfono attaccato alla tempia’ (Scrivere), sorta di megafono dell’interiorità, ma anche, e forse soprattutto, il luogo e lo strumento in cui una nuova interiorità si andava costituendo, come Ariel Hirschfeld – proprio nel merito del ruolo giocato dalla lingua le ebraica nelle vicende dello Yishuv, prima, e dello Stato d’Israele poi – ha ricordato”, scrivono i curatori.
“Non potrei parlare, scrivere, sentire in nessun’altra lingua” ha affermato Mishol nel film Misafa lesafa. D’une langue à l’autre di Nurith Aviv, con un atteggiamento che mescola fierezza e stupore che si ripropone anche nel suo amore per la natura e per la terra.
“Vi è del resto un’analogia tra il lavoro della terra e il lavoro sulla lingua, entrambe questioni centrali e cariche di rimandi nella storia del ritorno del popolo ebraico alla Terra di Israele, entrambi campi dove un faticoso lavoro ha dato storicamente i propri frutti. Mishol tuttavia non manca di sottolineare le differenze tra gli esiti che si danno nell’ambito della natura, da una parte, e quelli auspicabilmente realizzabili nel dominio delle lettere, dall’altra. Infatti mentre ‘Nel frutteto aleggia un pensiero / senza pensatore / sulla mancanza di fantasia della natura. / Ogni cosa a suo tempo. La tristezza / infinita del circolo. / L’offesa dell’unica scelta. / Nessun caco produrrà un cetriolo’ (Notturno II).” Suggeriscono i curatori che esiste per Mishol un primato della parola sulla realtà naturale, come se la scrittura potesse sostituirsi alla madre biologica, costituendo una via di scampo quando l’esistenza sembra escluderlo.
“Vi sono altri due temi apparentemente marginali che aleggiano in una rete di allusioni in più
di una poesia: la Shoah e il conflitto arabo-israeliano.
‘E io, Agi Mishol, seconda generazione / accendo torce di poesie / che non sono neppure un’arma deterrente’ (Shoah, ricordo, indipendenza) afferma l’autrice, ponendosi nel solco di quella letteratura di seconda generazione, dei figli dei sopravvissuti, che negli ultimi trent’anni ha conosciuto una grande fioritura in Israele. Come ha dichiarato in un’intervista: ‘Mia madre è stata ad Auschwitz e mio padre nei campi di lavoro, avevo anche una sorella che è salita al cielo in fumo. Sono stata la prima bambina nata dopo la Shoah a Cehu Silvaniei, la piccola città della Transilvania da cui provengo. Non dimentico mai tutto questo’. Così l’impegno del ricordo si accompagna alla consapevolezza della difficoltà della sua trasmissione in Caffè Moment, in cui l’attualità sanguinosa degli attentati palestinesi si lega con amara ironia a quel passato non così lontano attraverso la banalità del commento di una studentessa reduce di da un viaggio di istruzione in Polonia che emerge da una radiolina rimasta intatta dopo l’esplosione: ‘Cioè, è stato terribile, diceva / ma ne è valsa la se pena, / e abbiamo imparato un sacco?’. Ironia che le ritroviamo in Non ci sono state vittime, dove l’asino bianco carico di esplosivo sale in cielo in un turbine portando con sé il suo carico di simbologie religiose, quelle messianiche ebraiche e quelle martiriologiche islamiche al centro delle due opposte retoriche che si scontrano in Israele e Palestina”. Non sembra emergere necessariamente del pessimismo, continuano i curatori, nell’opera di Mishol, a meno che l’ottimismo non debba essere pensato come autoinganno. Le poesie di Mishol non tendono ad alcuna architettura d’insieme, ad alcuna conciliazione filosofica, ammesso e non concesso che la filosofia debba ancora e sempre procedere per conciliazioni e non abbia da imparare, proprio dalla poesia, l’attenzione al carattere aporetico del reale. Comunque sia, è certo che quest’ultimo aspetto, l’incompleto con cui veniamo costantemente corpo a corpo, emerge in tutta la sua placida violenza nei suoi testi. Placida, perché, almeno nella raccolta qui presentata, si tratta prevalentemente di una violenza del quotidiano, che non ha nulla dello stravolgente, del drammatico e del totalizzante. E tuttavia violenza, perché non appena si presti a questa quotidianità una particolare attenzione, subito mille piccoli dolori, che credevamo fastidi, brusii che rallentano l’assopimento notturno, si faranno sentire e reclamano a gran voce le loro ragioni: sono, diremo noi, le ragioni del tempo, che riescono improvvisamente a mettere a tacere ogni nostro successo, ogni nostra gioia, da quelle improvvise a quelle che credevamo ormai durature.
“Tristezza, come dice Mishol parlando del proprio sguardo, sì, ma pessimismo, perché dovrebbe? Il sole del mattino tornerà a levarsi regalando alla poetessa i giusti momenti in cui scrivere, in cui scorgere nelle mani dell’amato – e nelle proprie – il battito d’ali e nello sguardo della propria cagna la possibilità di sentimenti, di emozioni, privi di parole (L’ascesa al cielo). Dunque le parole non sono tutto, pare, e l’assenza che la scrittura poetica, come abbiamo detto, viene a esprimere, trova una preziosa compensazione nella pienezza del mondo, sorta di venatura panteistica, rinvenibile in diversi componimenti (si vedano per esempio: Tutti gli animali sono tristi dopo il coito e Tutto), che attenua le molte solitudini dalla scrittura espressa, dalla scrittura create”.
Pagine Ebraiche, Giugno 2017