L’economia israeliana in macrodati
L’economia israeliana è cresciuta, negli ultimi cinque anni, ad un ritmo medio annuale del 3%. Al momento dell’ultima rilevazione a consuntivo, secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme, la crescita del Prodotto interno lordo nel 2016 è stata del 4,3%, sostenuta dall’incremento dei consumi privati (aumentati del 6,3% rispetto all’anno precedente), dal miglioramento del potere d’acquisto delle famiglie e da una generalizzata tendenza all’incremento degli investimenti (con una maggiorazione dell’11%). I fattori legati a quest’ultimo risultato, in sé sorprendente per le sue notevoli dimensioni, sono da ricercarsi nell’oramai costante crescita del settore delle nuove tecnologie, oltre al riconoscimento che gli operatori economici hanno tributato alle autorità politiche ed istituzionali rispetto alla creazione e al mantenimento di un habitat favorevole allo sviluppo, alla ricerca e all’implementazione dei processi di innovazione. Alla fine di quest’anno la crescita dovrebbe comunque assestarsi intorno al 3% del Pil, per una capacità procapite di 36.500 dollari. Israele è visto come un paese stabile e promettente. Nell’anno trascorso, gli investimenti esteri hanno superato i cento miliardi di dollari, incidendo per oltre il 36% nella formazione della ricchezza nazionale. Un quarto di questi sono di origine statunitense. Denso è il processo di acquisizione delle start-up, con un giro di affari intorno ai dieci miliardi di dollari annui. D’altro canto, l’high tech incide per circa il 47% sulle esportazioni, ammontando a al 20% del Pil. Secondo l’Israel Venture Capital (IVC) Report, le start-up israeliane hanno raggiunto nel 2016 una cifra di 4,8 miliardi di dollari in termini di capitali investiti. Buone anche le performance pubbliche riguardo al deficit (corrispondente al 2,2% del Pil) e soprattutto al debito (sceso nel 2016 al 60,5% del Pil, quasi cinque punti in meno rispetto all’anno precedente). Il tasso di disoccupazione si è assestato al 4,8% (era quasi il doppio nel 2010), quello di inflazione è negativo (-0,2%, segnando per Israele la persistenza di un circuito economico tendenzialmente deflattivo, dopo l’incredibile crescita dei prezzi tra gli anni Settanta e Ottanta), mentre la Banca d’Israele, per attenuare l’eccesso di spinte deflazioniste e limitare la costante tendenza alla rivalutazione dello Shekel, altrimenti negativa per l’andamento delle esportazioni (il settore in maggiore difficoltà, poiché diminuito del 3,8% nel 2016), mantiene il tasso d’interesse del denaro intorno allo 0,1%. La stabilità del mercato finanziario nazionale, certificata dalle maggiori agenzie di rating internazionale, garantisce linee di credito e l’assorbimento di capitali stranieri in grande quantità. Ciò agevola, a sua volta, un elevato grado di apertura ai mercati internazionali (con una incidenza dell’import-export di quasi il 44% nella formazione del Pil), anche se l’eccessivo apprezzamento della moneta nazionale, processo in atto da almeno cinque anni di seguito, vincola le esportazioni israeliane soprattutto verso l’Europa, primo mercato di sbocco delle merci. Benché l’Unione rimanga ancora il primo partner commerciale (seguita dagli Stati Uniti e dall’Asia), la quota di esportazioni israeliane è decrescente, posizionandosi intorno al 30%. A parziale compensazione di ciò le autorità governative hanno cercato di perseguire la strada della diversificazione, orientandosi prevalentemente verso i mercati asiatici e quelli sudamericani. Attualmente, il deficit della bilancia commerciale è dell’1,7%, di contro all’8,8% del 2015. In questo quadro, l’interscambio tra Italia e Israele vede il nostro paese come ottavo partner di Gerusalemme nel mondo e terzo in Europa, per una quota complessiva del 4% sul totale delle importazioni israeliane.
Claudio Vercelli