Setirot – Frenesie
Confesso che la frenesia degli editori pre Giorno della Memoria comincia a darmi l’orticaria, e ormai è qualche anno che questa forma di dermatite si manifesta. Non che moltissimi libri pubblicati intorno al 27 gennaio non siano interessanti, utili, belli. Uno per tutti, dell’annata 2018, è I bambini di Moshe di Sergio Luzzatto, Einaudi: storia di Moshe Zeiri, giovane ebreo galiziano che lasciò il mondo yiddish dello shtetl per inseguire il sogno della rinascita ebraica in Palestina; e che raccolse in seguito tra i monti di Selvino, vicino a Bergamo, gli orfani della Shoah, centinaia di bambini che lui, soldato volontario nel Genio militare britannico, attraversata l’Italia per combattere i tedeschi, restituì alla vita per prepararli alla aliyah verso Eretz Israel. Resta il fatto che l’accumularsi di titoli in un periodo così breve credo sia, oltre che inutile, anche, forse, controproducente – come lo è ogni sovraesposizione un poco di maniera e ritualistica. D’altronde che il GdM vada complessivamente ripensato è opinione abbastanza comune e non da oggi. Adesso poi – mi permetto di affermare – a maggior ragione, visto lo spettacolo immondo che l’Europa e l’Italia stanno offrendo in termini di rinascita fascista, razzista, a tratti simil-nazista. Non posso che ripensare alle parole di “Contro il Giorno della Memoria”, pamphlet di Elena Loewenthal per Add editore. «Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte». Aveva evidentemente ragione Elena – basta leggere quotidianamente i giornali – quando scriveva che «la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea». Una speranza, grande, però, a me è rimasta e (chiedo scusa per l’accenno autobiografico) ha il viso e gli occhi della mia nipotina Anna Searà. Dove abbiamo fallito con i ragazzi e gli adulti potremmo confidare nei piccoli, e soprattutto darci da fare per ricostruire un mondo “antico”, come nelle fiabe. Lo possiamo fare e lo dobbiamo fare. Ripensare alla nostra realtà giovanile dove esattamente come nei tram c’era il cartello «non sputare per terra» così la parola fascismo era visceralmente impronunciabile, e Anne Frank qualcuno di cui andare a visitare il rifugio di Amsterdam, non una bestemmia da tifo calcistico e da perdita di umanità collettiva. Voglio allora segnalare due volumetti rivolti all’infanzia che mi hanno colpito per serietà, delicatezza, originalità. Che storia! La Shoah e il Giorno della Memoria di Lia Tagliacozzo, illustrazioni di Angelo Ruta, edizioni EL e Il gelataio Tirelli, Giusto tra le Nazioni, testi di Tamar Meir, disegni di Yael Albert, traduzione di Cesara Buonamici e Joshua Kalman, Gallucci editore. Non sono certo gli unici nel panorama degli ultimi anni, ma – oltre a essere i più recenti – mi paiono particolarmente dolcemente e profondamente efficaci. Un po’ come fecero tempo fa Anna e Michele Sarfatti con “L’albero della memoria. La Shoah raccontata ai bambini”, Mondadori. La speranza passa per i loro occhi. Noi, la generazione nata per caso fortuito, abbiamo palesemente fallito. Cerchiamo insieme ai nostri figli e ai loro figli di rimediare.
Stefano Jesurum, giornalista