Periscopio – La Foresta oscura
Il nuovo libro, Foresta oscura, di Nicole Krauss – autrice, tra l’altro, di quel grande capolavoro che è La storia dell’amore -, recentemente apparso, in traduzione italiana, per i tipi di Guanda, è un romanzo di rara intensità e forza espressiva, in grado di suscitare profonda commozione, schiudendo porte serrate e toccando corde nascoste dell’animo umano. L’affannosa, bruciante ricerca identitaria che coinvolge i due protagonisti della storia – il magnate ebreo americano che, dopo avere trascorso una vita ad accumulare ricchezza, sceglie di liberarsi di tutto ciò che possedeva, facendo perdere le proprie tracce in terra d’Israele, e la brillante scrittrice in crisi di creatività, anch’ella ebrea americana, che, negli stessi luoghi e lo stesso tempo, viene coinvolta in un misterioso ‘giallo’ sulla “seconda vita” segreta di Franz Kafka (che avrebbe simulato la propria morte a Praga, per scegliere, anch’egli, di scomparire, concludendo la propria vita, nel più assoluto anonimato, in Erez Israel) – cattura il lettore in modo potente e inquietante, portandolo a porsi domande nuove su cosa significhi vivere, e quanto possa essere determinante, ai fini della riposta a tale domanda, ‘dove’ e ‘come’ si scelga di vivere.
La ‘metamorfosi’ dello scrittore ceco (tanto quella del protagonista del suo celeberrimo racconto, quanto quella che avrebbe segretamente vissuto, per nascondersi al mondo), insieme alle due personali metamorfosi dei due protagonisti, coinvolgono profondamente il lettore, spingendo anche lui ad avvertire una pulsione di cambiamento, di migrazione in una realtà diversa. La scelta di Israele come destinazione e meta, in questo senso, ha tutt’altro che il sapore di una gloriosa ‘salita’, di un felice ritorno alla “Terra Promessa”, ma assume piuttosto il senso del richiamo arcano a un ‘altrove’ indefinibile e misterioso: Kafka, “che non aveva mai vissuto veramente, che sentiva di esistere solo nell’irrealtà della letteratura, non aveva alcun recapito in questo mondo”, e la Terra d’Israele si sarebbe a lui presentata come “l’unico ruolo irreale quanto la letteratura, perché era stata inventata dalla letteratura in un lontano passato e perché era ancora da inventare. Perciò, se Kafka doveva avere una patria spirituale, un posto in cui riuscire effettivamente a vivere, poteva essere soltanto questo”.
Tra le tante mirabili pagine del libro, vorrei ricordare solo quella in cui si narra di una persona che, recatasi al cimitero ebraico per recitare il ‘kaddìsh’ al cospetto della tomba di Kafka, si accorge, alla fine della preghiera, di averla recitata innanzi a una copia della vera lapide, che era stata posata, accanto a quella vera, per le esigenze di un film. La scoperta di avere pregato su una finta tomba genera turbamento nel personaggio del romanzo, ma induce anche il lettore a chiedersi in che modo si possa interloquire con una persona che non c’è più. Quella non era la vera lapide della tomba di Kafka, e, addirittura, lo scrittore non sarebbe mai stato sepolto in quel cimitero, e non avrebbe vissuto la vita che noi crediamo. E questo può valere per chiunque. Nessuno può conoscere la vita di nessuno, perché siamo tutti stati, in qualche modo, nascosti, esiliati, trasformati. Quando preghiamo sulla tomba di qualcuno, preghiamo sempre sulla tomba sbagliata, e quando qualcuno, dopo la nostra morte, verrà al nostro sepolcro, dentro di esso non ci saranno le nostre spoglie: perse, chi sa dove, in un luogo irreale, così come irreale è stata la vita che abbiamo vissuto.
Francesco Lucrezi, storico