Il rettore dell’Università Ebraica“La nostra scuola aperta sul mondo”
Tanta Israele e qualche pensiero all’Italia. L’incontro con Barak Medina, dal 2017 rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, comincia con la rivelazione del suo legame con la Penisola (“La mia famiglia è originaria di Livorno. Arrivarono dopo l’espulsione dalla Spagna e vissero lì per 300 anni. Poi all’inizio del XX secolo si spostarono in Egitto: mio padre nacque al Cairo e si trasferì in Israele nel 1950”). Medina, 52 anni, laurea a Tel Aviv, master ad Harvard, dottorato a Gerusalemme, già professore di diritto costituzionale, mi riceve nel suo ufficio al primo piano del “forum”, edificio cuore del campus sul Monte Scopus. Mezz’ora di colloquio per discutere presente e futuro dell’Università, i suoi obiettivi nell’incarico, l’impegno per la società e la democrazia israeliana.
Professor Medina, lei è diventato rettore dell’Università meno di un anno fa. Cosa ha significato passare dal lavorare nel suo ambito accademico, la Facoltà di Legge, all’amministrare l’intera istituzione?
È una grande sfida, ben oltre ciò che immaginavo. L’università è enorme, abbiamo quattro poli, dieci facoltà e una delle sue caratteristiche è che ciascun dipartimento ha la sua propria specifica cultura e grande autonomia. Normalmente la qualità di un ateneo si valuta in base ai suoi risultati nella ricerca e da questo punto di vista siamo leader in moltissimi ambiti, ma quando sono diventato rettore mi è stato immediatamente chiaro come fosse necessario investire nel rapporto con gli studenti. Da una parte siamo una università che segue il modello americano, dall’altra talvolta trattiamo i ragazzi come quelle europee, classi affollate, professori che non conoscono davvero gli studenti, né se ne interessano. Pur essendo la migliore università israeliana a volte facciamo fatica ad attrarre i migliori perché molti non vogliono trasferirsi a Gerusalemme e c’è la nomea che studiare da noi sia più difficile. Così stiamo spingendo per cambiare. Per esempio abbiamo lanciato un programma di mentoring che sta riscuotendo grande successo: a ogni matricola viene assegnato un mentore tra i docenti, che deve incontrarla, spiegare di cosa si occupa in termini di ricerca, capire i suoi interessi… Come università pubblica poi attiriamo iscritti di background socio-economico diverso; in Israele solitamente gli studenti lavorano durante l’università, ma spesso da noi gli studi non lo permettono. Ci impegnano molto per garantire un numero sufficiente di borse di studio e la raccolta fondi a questo scopo è senz’altro una priorità. L’ultima grande sfida risiede nel fatto che l’università si trovava in profonda crisi economica, con i conti in rosso da dieci anni, le infrastrutture di ricerca deteriorate e senza un numero sufficiente di professori. L’anno scorso abbiamo finalmente firmato un accordo con il governo per garantire maggiori fondi e ora siamo davvero nel mezzo di una rivoluzione, abbiamo appena assunto 50 nuovi docenti, stiamo tornando a essere quella che eravamo. Siamo anche in una fase di forte internazionalizzazione, almeno il 10% dei nostri professori non sono israeliani e sono arrivati qui attratti dall’eccellenza accademica.
A proposito di rapporti con l’estero, spesso si sente parlare di iniziative di boicottaggio nei confronti di atenei israeliani. Qual è la situazione?
Non percepiamo ancora davvero gli effetti dei movimenti di boicottaggio. Talvolta cogliamo alcuni segnali, soprattutto con accademici britannici, ma non accade di frequente, anche se naturalmente non è detto che chi boicotta lo ammetta esplicitamente. Detto questo, abbiamo relazioni molto forti con università di tutto il mondo, e ogni anno accogliamo duemila studenti internazionali. Direi che in questo ambito le principali sfide sono la lingua, visto che la maggior parte dei nostri corsi sono in ebraico anche se per il futuro il nostro obiettivo è quello di insegnare tutti i master in inglese e le preoccupazioni legate alla sicurezza. Israele in generale e Gerusalemme in particolare sono talvolta percepite come pericolose. Fortunatamente negli ultimi anni non è più così, ma non biasimo chi leggendo le notizie lo pensa. D’altra parte, Gerusalemme è una città che attrae gente da ogni parte del mondo, vivere qui è interessante, è un’avventura, è un mix di culture diverse. Aggiungo che abbiamo ottimi rapporti con l’Italia, soprattutto in ambito scientifico-tecnologico, con diversi programmi di scambio sia per studenti sia per professori. Abbiamo appena inaugurato un master in Chimica insieme all’Università di Perugia e lavoriamo con l’Università Pontificia negli studi sull’antica cristianità e sulle religioni. Speriamo di poter incrementare ulteriormente queste opportunità.
Passando a parlare del suo profilo, scorrendo il suo curriculum non si può fare a meno di notare la varietà dei suoi interessi accademici, dagli aspetti economici della legge ai diritti umani.
La mia carriera è iniziata nel campo dell’analisi del diritto in prospettiva economica, un ambito molto teorico, dove era facile pubblicare in riviste internazionali, senza concentrarsi sulle specificità di Israele. Questo approccio è molto comune nel nostro mondo accademico in ambiti come la legge e le scienze sociali: essere, per dirla a grandi linee, molto internazionali, sforzarsi di pubblicare in giornali prestigiosi e così via. Dal punto di vista scientifico ci sono dei vantaggi, ma il prezzo da pagare è il rischio di perdere contatto con la propria realtà. Questa attitudine riscuote molte critiche nella società israeliana, dove in tanti rimproverano la tendenza degli accademici a rimanere isolati in una torre d’avorio occupandosi di teorie astratte, e trascurando il paese. Personalmente, ad un certo punto ho cominciato a capire che parte del mio obiettivo come studioso era di avere un impatto sulla mia comunità. Negli ultimi dieci anni, mi sono così concentrato maggiormente su questioni domestiche e in particolare sulla legge costituzionale d’Israele, il cui stato della democrazia e della protezione dei diritti umani desta in me molte preoccupazioni.
Cosa in particolare la preoccupa?
Prima di tutto specifico che rispondo da privato e le mie posizioni non sono quelle dell’università, perché ovviamente ci addentriamo in terreni controversi. A mio parere oggi in Israele ci troviamo ad affrontare un problema di populismo, con politici che non sembrano considerare il dovere di rispettare i diritti umani come un principio importante. Mi pare che ci muoviamo sempre più nella direzione di una politica di gruppi di interesse, spesso a spese delle minoranze, i cui diritti non sono sufficientemente protetti, a partire da quelli dei cittadini arabo-israeliani. Non dico che Israele non è più una democrazia, però che ci sia un’erosione dei suoi valori sì, e in mancanza di una vera e propria Costituzione non c’è sufficiente cultura del dovere di rispettarli.
Pensa che il fatto che Israele abbia un insieme di Leggi fondamentali invece di una Costituzione unica abbia un’influenza importante sulla società?
Sì. Non direttamente perché la nostra Corte suprema svolge revisione giudiziale e passa in rassegna le leggi come se il paese avesse una Costituzione, però ha un effetto indiretto in termini di percezione pubblica. I bambini a scuola non studiano la Costituzione, visto che non c’è, così i principi diventano più fragili, e dobbiamo lavorare più duramente per trasmetterne l’importanza.
Quello della tensione tra le Corti costituzionali e il legislatore è un tema attuale in molti paesi: c’è chi è contrario all’idea che i magistrati abbiano la facoltà di intervenire su quanto deciso dai rappresentanti eletti dal popolo. C’è fondamento in un’argomentazione del genere?
Ritengo di no. I rappresentanti eletti dal popolo hanno diritto di legiferare solo fintanto che lo fanno nel rispetto dei diritti umani, nel rispetto dell’uguaglianza di tutti noi. In caso contrario perdono legittimità. È vero che vengono eletti per decidere, ma solo nei parametri della democrazia. Se fuoriescono, che le corti intervengano non è solo legittimo, è necessario.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche Agosto 2018