Miriam, madre coraggio d’Israele
“Scegliete sempre la vita”

Nel 2018 vince il Pras Israel, il più prestigioso riconoscimento conferito dallo Stato di Israele, ma non ne capisce proprio il motivo, dice di non meritarselo. “Sono una donna semplice”. Nel 2014 viene scelta per accendere una delle dodici fiaccole in onore della Festa d’Indipendenza israeliana, ma racconta di aver temuto per un attimo di non farcela. “I miei figli mi hanno dato la forza”. Nel 2011 pubblica un’autobiografia che vende migliaia di copie in Israele e nel mondo, ma confessa che quel libro in realtà era destinato a rimanere nascosto nel suo cassetto. “Più mi nascondo e più Dio mi scopre”. Miriam Peretz è una delle figure più amate, apprezzate, citate e studiate all’interno della società israeliana. Tutto ha inizio nel 1998, quando il suo primogenito Uriel viene ucciso durante un combattimento in Libano. Il marito Eliezer non riesce a sopportare il dolore della perdita e poco dopo viene a mancare a causa di un infarto, all’età di 56 anni. La tragedia culmina nel 2010 quando il secondogenito Eliraz viene ucciso durante la prima guerra con Gaza lasciando così, oltre che la madre, anche la moglie e quattro figli. Da allora Miriam dedica le sue giornate ad incontrare il popolo israeliano in tutte le sue infinite sfumature. “Non parlo mai di morte, al contrario, parlo di vita. Di amore per la vita. Cerco di spiegare a chi mi ascolta che svegliarsi la mattina è il più grande dei regali”. Uriel e Eliraz, entrambi ufficiali dell’esercito israeliano, vengono ricordati come due eroi e Miriam… Beh, Miriam diventa la madre del popolo ebraico, l’essenza del Sionismo, l’emblema della forza, del coraggio, della fede. Una donna che ha saputo tradurre il dolore in parole, toccando così i cuori di milioni di persone in tutto il mondo. “Darei qualsiasi cosa pur di tornare nell’anonimato e riavere indietro i miei figli”. La incontro un venerdì mattina a casa sua, a Ghivat Zeev. Mi racconta subito del suo viaggio a Roma, di aver sentito l’abbraccio caldo della Comunità ebraica e mi confessa che desidera tanto tornarci. I minuti prefissati per l’intervista sono trenta precisi precisi, ma ci ritroviamo a chiacchierare un’ora più del dovuto. E poi ancora fuori di casa, sù per le scale, fino al cancello. “Chiamami appena entri in macchina” si raccomanda. La conversazione con Miriam potrebbe durare in eterno, infatti conclusa la telefonata cominciano subito i messaggi su Whatsapp, fino all’entrata dello Shabbat. Accade così che una giornata qualunque tramuta in ricordo indelebile e una semplice intervista si trasforma in un incontro magico. Una straordinaria lezione di vita.

Sono giorni interi che mi domando come sia giusto cominciare questa intervista, ed ogni volta che provo a formulare una domanda mi ritrovo al punto di partenza. Ovvero, mi domando come, come sia possibile convivere con il dolore di tre perdite così tragiche.
Sai, comincio dicendo che vivere in Terra di Israele richiede dei grandi sacrifici, solo chi ha fede può abitarci. Questo angolo di terra non ci è stato servito su un piatto di argento, ma in un piatto pieno di sangue. E non parlo solo di oggi, del nostro presente, ma di una realtà storica che ci perseguita sin dalle origini. A volte mi domando se è questa la pena che ci è stata decretata: vivere in una guerra infinita. Ma io voglio credere di no, io voglio credere che la pace non sia solo un sogno. E credimi, io so bene cosa sia la pace, sono una delle poche madri in questo paese che conosce il vero significato della parola pace. Una delle poche che ha pagato un prezzo così caro per ottenerla. Eppure ti dico che preferisco e preferirò sempre le pene della pace, che il dolore della guerra.

Ma non è giusto Miriam. Non è giusto tutto ciò che ti è capitato. Come fai ad accettarlo?
Lo so, non è giusto. Non è giusto e non è normale che una madre debba seppellire i propri figli.
No, non è una cosa normale. Non è normale che ad ogni mio arrivo al Monte Herzl io debba prendere una decisione talmente diffcile che nemmeno Dio stesso potrebbe prendere al posto mio. Io sono una madre che deve scegliere quale dei suoi due figli abbracciare per primo. Accanto a quale tomba stare quando suona la sirena in memoria dei soldati caduti in guerra. Capisci? Io sono una madre che deve rinunciare ad uno dei propri figli. Già settimane prima li sento litigare nella mia mente, proprio come quando erano bambini e desideravano le mie attenzioni. No, non è giusto e non è normale. Ti confesso che ci sono tante cadute, tanti momenti in cui la nostalgia quasi mi soffoca, ma ho capito che l’importante è rialzarsi sempre, non rimanere a terra. Guardo i miei figli e i miei nipoti e torno a sorridere, perché mi rendo conto che Hamas e Hezbollah sono riusciti ad uccidere solo il corpo di Uriel ed Eliraz. Il loro spirito vive ancora, in me e in tutti quelli che portano avanti i loro valori ed i loro ideali. Finché io sarò in vita, anche lo spirito dei miei figli lo sarà.

Dicono che il tempo curi ogni ferita. Pensi che sia possibile abituarsi al dolore e convivere con esso?
Il dolore si fa più intimo nel tempo, come un verme che mangia il frutto dal suo interno. Ma con tuo permesso vorrei non utilizzare la parola “tempo”. Vorrei utilizzare la parola “vita”. Sì, è la vita che ci cura, non il tempo. è preparare il pranzo ai tuoi nipoti, ballare al matrimonio dei tuoi figli. Convivere con la vita e con la morte e scoprire che la forza della vita è maggiore di ogni altra forza. Persino della morte. Probabilmente se qualcuno mi avesse chiesto di venire al mondo, avrei subito rifiutato, ma nessuno mi ha dato questa possibilità, nessuno mi ha dato la possibilità di scegliere. Così me la sono presa da sola, la possibilità di scegliere. Sì, ho scelto di essere felice, di svegliarmi la mattina ed essere felice, perché dopo aver perso i miei figli ho capito che la vita è in assoluto il dono più grande. Quando riceviamo un regalo siamo felici, perché allora quando ci svegliamo la mattina non lo siamo? Abbiamo appena ricevuto il dono più straordinario di tutti, la vita, dobbiamo essere felici, dobbiamo scegliere di essere felici. Non è Dio a scegliere per noi, siamo noi gli unici responsabili della nostra felicità. è questo il messaggio che cerco di trasmettere a chi mi ascolta.

Sempre parlando di felicità, in passato hai raccontato che quando ti è stata comunicata la morte di tuo figlio Uriel non riuscivi a credere che fuori di casa il sole continuasse a splendere come se nulla fosse accaduto. Ecco, il tuo sole, quello dentro di te, quando ha ricominciato a splendere?
Proprio come il sole, anche la felicità sorge piano piano. Ci sono tanti piccoli eventi che ti fanno tornare il sorriso, ma la felicità vera, quella autentica, senza ombre né piaghe, l’ho provata dopo tre anni, al matrimonio di mio figlio Eliraz. Quella mattina sono andata a trovare Uriel sul Monte Herzl e ho pregato sulla sua tomba. Ho pregato chiedendo a Dio di regalarmi un cuore nuovo. Già proprio così, un cuore nuovo. Di sostituire il cuore vecchio e spezzato con quello nuovo. E Dio ha ascoltato le mie preghiere.

Parli sempre di Uriel ed Eliraz, ma oltre a loro hai altri quattro figli. Com’è cambiato il tuo rapporto con loro dopo la perdita del primo e secondogenito?
Beh, sono diventata molto più ansiosa. Non tanto con i miei figli quanto con i miei nipoti. Perdo la testa se scopro che uno di loro non sta bene. Ma al contempo ho imparato ad essere molto più affettuosa, a trasmettere tutto l’amore che nutro per loro oggi, perché domani potrebbe essere troppo tardi. Tra l’altro mi si associa sempre ad Uriel ed Eliraz, ma io lo dico e lo ripeto: io non sono madre solo dei morti, io sono madre anche dei vivi! Vorrei che mi chiamassero la mamma della vita. Forse mi si addice di più di altri soprannomi che mi sono stati dati in questi anni, sempre e solo associati alla morte.

Sai, molti ti considerano l’emblema della gioia, dell’amore per la vita, dell’ottimismo. Credo di capirne ora il motivo.
Beh, non dimenticarti che sono rossa. Sai cosa si dice di noi.

Eppure il colore dei tuoi capelli temo non basti a nascondere tutte le cicatrici che ti porti dietro. Qual è quella che ancora oggi brucia più di tutte?
Ascolta… Ogni volta che bussano alla porta mi si riapre una cicatrice. Solo una mamma che ha perso il proprio figlio in guerra può riconoscere quel suono, rivivere quell’attimo in cui ti entrano in casa per comunicarti la tragedia. Sono ferite che rimangono aperte, che non si rimarginano mai. Ma se parliamo di ferite, anche quelle hanno una cura. La mia è uno spazzolino.

Uno spazzolino?
Già, proprio così. Quando un soldato viene a mancare, il suo comandante raccoglie tutti i suoi effetti personali, li mette in uno scatolone e li consegna alla famiglia. La scatola di Uriel non l’ho ancora aperta, sono trascorsi vent’anni e non sono ancora riuscita ad aprirla. L’unica cosa che ho estratto da quella scatola è il suo spazzolino, che porta ancora l’odore della sua bocca. Ti rendi conto? L’odore di mio figlio! Così una volta l’anno, a Pesach, quando pulisco a fondo tutta la casa, apro la scatola e annuso per un attimo mio figlio… Non esiste dono più grande per una mamma. Prego sempre Dio affinché non faccia mai sparire il suo odore da quello spazzolino.

Miriam, so che non te la sei cercata tutta questa fama, ma ormai sei diventata una vera e propria celebrità. Si parla di te ovunque. Com’è fare i conti con la popolarità?
è una grandissima responsabilità, ne sono pienamente consapevole, ma se un tempo scappavo dalle persone che mi riconoscevano per strada, oggi corro ad abbracciarle prima ancora che facciano in tempo a rivolgermi la parola. Mi dico che forse ciò che piace alla gente è la mia semplicità, il sentirmi una di loro, non dimenticarmi mai le mie origini. Le telecamere non mi hanno cambiata e nemmeno la notorietà. Mi chiedono di parlare ovunque, in qualsiasi circostanza, anche a pagamento, ma io non voglio un centesimo. Io il mio lavoro ce l’ho, nel Ministero dell’Istruzione. Tutto ciò che faccio è per puro amore, per il mio popolo, a cui non rinuncerei mai. Sì, a nessun tassello del puzzle potrei rinunciare.

Lo sai che si vocifera che sei tra i prossimi candidati alla presidenza dopo il mandato di Rivlin, vero?
Sì, l’ho saputo, ma non fa per me la politica. Sono una donna semplice io. Mi immagini seduta ogni giorno in Parlamento con indosso un abito elegante?

Al popolo non importa come ti vesti Miriam, al popolo basta solo sentirti parlare. Ha bisogno di sentirti parlare.
Facciamo così, ti do la stessa risposta che ho dato a Bibi Netanyahu quando mi ha chiesto di entrare a fare parte del suo partito. La politica non fa per me, ma io lascio sempre la porta aperta. Ovunque Dio mi vorrà, io ci sarò.

Nel 2014 Dio ti ha voluta a Gerusalemme, per accendere una delle dodici fiaccole in onore del Giorno d’Indipendenza dello Stato di Israele. Terminato il tuo breve discorso hai pronunciato la classica formula “Ve le tiferet Medinat Israel”, alla gloria dello Stato di Israele, proprio come da prassi. Tutti recitano questa frase con grande pathos, ma mi domando quale sia il suo vero significato, quello più profondo.
Quando mi hanno comunicato che avrei acceso una delle dodici fiaccole, ricordo che guardai immediatamente la parete, dove vi era appesa la fotografia di Uriel ed Eliraz e dissi loro: “Avete sentito? Quest’anno accenderete voi le fiaccole”. Il problema si presentò il giorno stesso, in quanto in Israele si festeggia il Giorno dell’Indipendenza subito dopo aver celebrato il Giorno della Memoria dei soldati caduti. Ecco, io avevo trascorso tutto il giorno in cimitero, a piangere. Gli altri invitati avevano avuto modo di prepararsi a dovere per la cerimonia, mentre io arrivavo direttamente dal Monte Herzl. Non pensavo che ce l’avrei fatta, lì dove tutti vedevano i propri famigliari felici, io vedevo solo le tombe dei miei figli. Così parlai con loro, chiesi loro di sedersi tra il pubblico, di darmi la forza. E loro mi ascoltarono, vennero subito in mio soccorso. Li vidi seduti in platea, con in mano le bandiere di Israele. Che gioia! Quando una madre vede i propri figli non può che essere felice. Capii immediatamente che non stavo semplicemente accendendo una fiaccola, stavo riaccendendo il loro spirito. Lo spirito del mio Uriel, del mio Eliraz. Quindi sorrisi e pronunciai il mio discorso. Infine arrivò quella frase: “Alla gloria dello Stato di Israele”. Dissi in cuor mio che nessuno più di me poteva comprendere a fondo il significato di quella gloria. Che nessuno aveva pagato un prezzo così caro pur di averla. Nessuno.

E quest’anno è arrivato il riconoscimento più straordinario di tutti, il Pras Israel. Alla cerimonia hai fatto un discorso che è diventato virale in rete ed è stato inserito in tutti i programmi di studio delle scuole di tutto il paese. Qual è il segreto di tanto successo?
Un cuore spezzato, diviso in tre parti. Nulla di più. Quando mi dissero che avevo vinto non ci credevo, pensavo fosse uno sbaglio. Io? Miriam Peretz? Una donna così semplice, che non ha fatto proprio nulla per meritarselo. Poi mi chiesero di fare il discorso a nome di tutti i premiati ed io rifiutati immediatamente. C’era David Grossman seduto accanto a me, come avrei potuto prendere io la parola? Proprio io, che in infanzia non sapevo nemmeno cosa fosse un libro e la prima volta che vidi un tagliere da cucina fu quando avevo sedici anni. Proprio io, figlia di due genitori che fino al loro ultimo giorno non erano riusciti ad imparare nemmeno una parola di ebraico, che hanno vissuto in povertà per tutta la loro vita. Com’era possibile? Eppure il Ministro Bennett insistette molto e io dovetti accettare. Così dissi la verità, dissi che a differenza degli altri premiati io non avevo inventato nulla, non avevo condotto ricerche o fatto scoperte importanti. L’unica cosa che avevo da offrire era un cuore. E con quel cuore parlavo a tutti, nessuno escluso, con parole semplici. Parole d’amore.

Un altro importante traguardo è stata la pubblicazione della tua biografia, che ha avuto un successo clamoroso non solo in Israele, ma in molti paesi nel mondo. Il titolo che hai scelto è “Il canto di Miriam”, lo stesso canto che accompagnò il popolo ebraico fuori dall’Egitto, nell’apertura del Mar Rosso. Come mai questo parallelismo?
Semplice, Miriam la profetessa cantava quando si aprivano le acque. Io canto quando mi sento affogare. Ma entrambe cantiamo, lo spirito di entrambe non si spegne mai. Tra l’altro ti racconto un aneddoto, quel libro doveva rimanere nascosto nel mio cassetto. Lo scrissi per i figli di Eliraz, affinché potessero ricordare per sempre il loro papà. Però Dio ha sempre dei piani per me, più mi nascondo e più lui mi scopre. Così la scrittrice Smadar Shir scoprì dell’esistenza di questo libro e insistette affinché lo pubblicassimo. Ed io, un’altra volta, accettai.

Siamo quasi giunti alla fine Miriam e da uomo di fede a donna di fede ti vorrei chiedere, se avessi la possibilità di scambiare qualche parola con Dio, che cosa gli diresti?
Ah, aspettavo questa domanda. Beh, gli chiederei perché. Perché? Perché? Perché? Perché combattere contro una donna così piccola. Perché affondare un coltello nel mio cuore e rigirarlo per così tante volte. Cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo. Ma sai cosa? Non credo esista una risposta a tutti i miei perché, e proprio per questo motivo credo di aver vinto la mia battaglia. Ho imparato in questi anni ad amare Dio incondizionatamente, nonostante tutte le difficoltà. Ho imparato ad amare il cielo anche quando ha taciuto. Dico sempre che è facile amare Dio quando si ha tutto, ma non è affatto facile amarlo quando non si ha più nulla. E io ce l’ho fatta. Tutti incontrano Dio da morti, io invece lo incontro ogni giorno, da viva.

Prima di salutarci vorrei citare tuo figlio Uriel, recitare la frase che scrisse prima di morire. Una frase che a mio avviso racchiude in sé l’essenza del Sionismo. “Con tutte le spine che sono entrate nel mio corpo, potrei riempire metri quadri di terra. Ma queste non sono semplici spine: queste sono le spine della Terra di Israele”. Ecco, abbiamo finito. Grazie Miriam, grazie di cuore.

David Zebuloni, Pagine Ebraiche 2018