Netanyahu ancora alla guida d’Israele “Solida garanzia”. “Rischio per il Paese”
Non si può mettere in discussione un Primo ministro che in 13 anni ha portato Israele a una solida crescita economica, ad avere una posizione di rilievo nel panorama internazionale, a garantire di fatto la sicurezza dei suoi cittadini davanti alla minaccia del terrorismo palestinese e dei nemici più lontani; che nonostante il tentativo di screditarlo dei media e della giustizia, ha il favore della gente.
Non si può avere un Primo ministro che per 13 anni non vede l’aumento verticale delle diseguaglianze sociali, delegittima una parte di cittadini del paese – la sinistra, gli arabi -, non propone una soluzione reale al conflitto con i palestinesi mentre i missili continuano a cadere sul Sud d’Israele; che nonostante le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche non fa un passo indietro come gli chiede metà dell’elettorato.
Gravitano attorno a questi due poli, con diverse gradazioni, le posizioni degli italkim, la Comunità degli italiani d’Israele, che abbiamo sentito in queste ore per avere una panoramica sulle loro opinioni all’indomani delle elezioni che hanno sancito la riconferma del Premier Benjamin Netanyahu. “Come si fa mettere in dubbio Netanyahu con i risultati che ha portato per Israele?
Il fatto che i media e la sinistra vogliano vedere in lui un criminale è pazzesca: non riescono a vincerlo alle urne e allora lo delegittimano con le accuse ma hanno fatto buco”, commenta David Cassuto, architetto e già vicesindaco di Gerusalemme che spiega di essere “per il Likud ma non del Likud”. Cassuto rappresenta quell’elettorato che confida nell’innocenza del Premier davanti ai tre procedimenti per cui è stato rinviato a giudizio. “Dimostrerà in tribunale che è un uomo per bene e così avremo per quattro anni un Primo ministro di prim’ordine perché non c’è un altro in tutto l’occidente all’altezza di Netanyahu. Ha saputo manovrare il paese e portarlo dall’essere una realtà in disparte all’essere tenuto in considerazione dall’America del sud fino all’Africa, e persino tra i Paesi arabi del golfo. Per non parlare dello stretto rapporto con Trump e Putin”. Lettura simile per Raphael Barki, presidente del Comitato per gli Italiani all’Estero (Comites) in Israele, secondo cui il voto ha confermato “la bontà del governo che c’è stato finora, i numeri sono a favore, le relazioni internazionali d’Israele sono fiorite e sono moltiplicate. In più se vai a vedere non c’era una vera alternativa: quello che chiamano il blocco di centro-sinistra, con 55 voti contro i 65 della destra, non è un vero blocco perché all’interno ci sono i partiti arabi con cui Kachol Lavan non si sarebbe alleato”. Quindi l’unica vera coalizione di maggioranza (e quindi di governo) è quella legata a Netanyahu. Rispedite invece al mittente da Cassuto e Barki le preoccupazioni pre-elettorali di altri italkim, che nello strapotere politico del leader del Likud vedono un pericolo per la democrazia israeliana. “Sono voci che c’erano anche alle scorse elezioni. Anzi nel 2015 erano anche più allarmate. Allora la vittoria del Likud fu vissuta come una tragedia, oggi con rassegnazione. Oramai chi non appoggia Netanyahu ha capito che la maggioranza sta con lui e che loro sono la minoranza”, sottolinea Barki. Tra i critici del Premier, il demografo Sergio Della Pergola, per cui la gestione della cosa pubblica da parte di Netanyahu è pericolosamente vicina a quella di Erdogan e Orban. Intervistato su queste pagine, Della Pergola aveva parlato di un “regime di veline, in cui una fazione politica legge e recita pedissequamente le veline del leader”. Per il demografo, l’accumulo di potere nelle mani di Netanyahu (nell’ultima legislatura, oltre ad essere Premier, ha ricoperto gli incarichi di ministro delle Comunicazioni, ministro degli Esteri, ministro della Sanità e della Difesa) sta trasformando Israele da democrazia parlamentare a una sorta di governo presidenziale e i suoi attacchi a media, Corte suprema e polizia erodono gli equilibri tra poteri. Un’opinione condivisa da Roberto Della Rocca, vicepresidente della Camera di Commercio Italia-Israele e a lungo esponente di Meretz, il partito più a sinistra entrato alla Knesset. “Con grande dolore dico che stiamo assomigliando sempre di più ai paesi attorno a noi. Regimi non democrazie. – afferma Della Rocca – Siamo nelle mani del partito di Bibi (Netanyahu) neanche del Likud. Di un genio dei mass media, che nelle ultime settimane ha pianto lacrime di coccodrillo, lamentandosi di attacchi dei giornali mentre dalla sua parte ha un quotidiano (Israel Hayom) e un canale televisivo (Arutz 20) che seguono pedissequamente i suoi ordini”. Cassuto ribalta queste considerazioni: “Non si può negare che Netanyahu in questa campagna elettorale sia stato attaccato quasi da tutti i media, che lo hanno descritto come un corrotto ma fino a prova contraria, fino a che non c’è una sentenza, lui è innocente. Ora se la giustizia sia o no partigiana non voglio dirlo, perché può darsi che anche che i magistrati siano stati influenzati dai media. Il povero Mandelbilit (ex collaboratore di Netanyahu, oggi Avvocato Generale dello Stato che ha rinviato a giudizio il Premier per i tre casi a suo carico) ogni notte per due anni ha avuto dimostranti sotto la finestra che volevano che incriminasse Netanyahu. E allora mi chiedo, questo è un modo di agire di chi ritiene di essere democratico? La popolazione ha dato il suo parere votando per lui”. Una popolazione a metà, rileva Daniela Fubini, firma di Pagine Ebraiche, che sottolinea come “più di un milione di israeliani ha scelto Kachol Lavan perché voleva qualcosa di diverso. Voleva un cambiamento e invece non avrà risposta”. “Due sono le questioni importanti che secondo me non verranno toccate dal nuovo governo Netanyahu. – spiega Fubini – Parlo della questione dei Territori palestinesi, di proporre una soluzione vera e non il mantenimento dello status quo; e parlo della questione sociale, della forbice di disparità economiche che cresce in Israele”. Su questi due temi si concentra anche Vito Anav, già presidente dell’Irgun Ole Italia, e sul primo il giudizio è netto. “Se vai a vedere bene o male non esiste una vera soluzione al conflitto con i palestinesi, per cui ognuno sogna un futuro roseo che purtroppo non c’è. Io sono pessimista sul fatto che ci sarà mai. Quello che è stato d’altra parte totalmente ignorato in Israele è la divisione tra destra e sinistra dal punto di vista sociale: l’economia liberista del governo Netanyahu ha acuito delle sperequazioni sociali che adesso stanno diventando un rischio di sicurezza. – afferma Anav – Potrebbe sembrare assurdo ma se tu hai la gente che si puzza di fame, usando un’espressione romana, non è che poi avrai un buon soldato, né avrai persone pronte a farsi mandare i missili sulle corna, e così via. Per cui quello che oggi va risolto in Israele sono le disuguaglianze sociali”. Un tema toccato su queste pagine in passato anche dell’economista della Banca d’Italia Aviram Levy che ricordava come “Israele registra il più elevato tasso di ‘povertà relativa’ (ossia la differenza di reddito e ricchezza tra la fetta più ricca e quella più povera della popolazione) tra i paesi dell’OCSE ( ossia quelli industriali): tale poco invidiabile primato è riconducibile in buona parte al divario di partecipazione alla forza lavoro, di istruzione e di salario che si osserva tra la minoranza dei haredim e degli arabi israeliani da una parte e il resto della popolazione dall’altra. La rapida crescita demografica di queste due minoranze (la loro quota di forza lavoro salirà tra il 2015 e il 2045 dal 25% al 40%) potrebbe mettere a rischio la crescita e la stabilità dell’economia”. Per Daniela Fubini questo tema difficilmente diventerà una priorità nel prossimo governo Netanyahu. “Non è stato fatto fino ad ora e non vedo all’orizzonte un cambiamento. Come non lo vedo sulla questione palestinese: aspettiamo il piano americano ma non credo porterà modifiche sostanziali. – afferma Fubini, che oggi vive a 23 chilometri dal Nord di Gaza, in un’area, spiega, meno colpita dai missili dei terroristi ma comunque molto sensibile alle minacce di Hamas – Quello che mi stupisce è il conservatorismo di una buona fetta di israeliani, di chi ad Ashkelon (43 % Likud – 16 % Kachol Lavan) e Sderot (44% Likud contro 9% Kachol Lavan) ha votato ancora una volta per Bibi nonostante in questi anni i razzi di Hamas abbiano continuato a piovere sulle loro teste. Mi stupisce che non abbiano scelto, almeno per una volta, di cambiare strategia. Come diceva Einstein, ‘La follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi’. Netanyahu mi pare abbia tutto l’interesse a mantenere questo status quo e per la maggioranza degli israeliani va bene così. Devo dire che mi preoccupa questa mancanza di rinnovamento politico. Rischia di paralizzare il paese. Netanyahu è un leader politico, amato, amatissimo, ma è al potere da un numero di anni francamente preoccupante”. Per Fubini questa mancanza di rinnovamento si palesa anche nella scarsa rappresentanza femminile alla Knesset: 29 donne su 120 parlamentari, come nella scorsa legislatura. “Troppo poche. E credo sia un tema di cui discutere”. A preoccuparla anche il volto di alcuni dei partiti entrati alla Knesset: “vedo sempre più esponenti di una destra incattivita, ultraconservatrice, e non posso dire che sia un dato positivo”. Come non lo è secondo Della Rocca il fatto che non si parli di una soluzione del conflitto palestinese. “È l’elefante nella stanza. Senza una soluzione con i palestinesi, Israele non potrà mai sistemare le proprie questioni interne. E per me la risposta è il ritiro dai Territori occupati. Così li chiama la comunità internazionale e così continuerà a chiamarla anche tra trecento anni. A chi mi dice che da Gaza ci siamo ritirati e ora ci piovono i razzi rispondo che lo abbiamo fatto male, bisogna farlo con un accordo non unilateralmente”. Per Della Rocca – che lavora alla creazione di un fronte unito della sinistra israeliana, praticamente dissoltasi in questa tornata elettorale – la soluzione è due Stati per due popoli perché altrimenti o non ci sarà più un’Israele democratica o non ci sarà più un’Israele ebraica. “Io sono sionista. Io voglio Israele ebraica e democratica. Con l’annessione dei Territori questo non potrà avvenire. I palestinesi hanno le loro colpe se non siamo arrivati a negoziare la pace negli ultimi 10 anni, ma credo sia il 20 per cento di responsabilità, il restante 80 è a carico del governo Netanyahu”. Una posizione che per Raphael Barki non è accettabile. “Come si può presumere che i palestinesi, che sono divisi tra di loro, vogliano la pace? Non lo hanno dimostrato in nessuno modo. Perché Israele, che ha già fatto proposte e rinunce dolorose in passato, dovrebbe fare il primo passo? Loro lanciano razzi e fanno attacchi terroristici. Fino a che non smetteranno, fino a che non dimostreranno nei fatti di voler parlare, noi non possiamo che stare in guardia e difenderci”. Guardando poi agli arabi israeliani, 20 per cento della popolazione contro cui è stat fatta molta della campagna elettorale, Barki sottolinea la necessità di una maggiore integrazione. “Credo che il prossimo governo debba lavorare per creare armonia all’interno della società israeliana che è così frammentata. Quando si sta bene si sta bene tutti insieme. E finché le cose vanno bene, c’è sempre l’opportunità per migliorare anche la percezione di chi si sente più escluso, tra cui gli arabi israeliani”.
Quali strade Israele prenderà rispetto ai diversi problemi toccati spetterà dunque deciderlo per la quinta volta a Netanyahu, unico leader in grado di ottenere una maggioranza chiara di consensi in Israele – e su questo le diverse voci sentite sono concordi, anche quelle critiche. “Io oggi non vedo né nell’opposizione né nel governo una persona alla sua altezza – afferma Cassuto – Ora Netanyahu dovrebbe creare un successore valido”. Ma per il momento non c’è. Tutto è affidato al Premier. Per molti è una garanzia. Per altri, una deriva. Salvo imprevisti – l’eventuale incriminazione che scompiglierebbe le carte -, saranno comunque altri quattro anni di Netanyahu.
Daniel Reichel