Nardo e Isabella,
l’intreccio con Primo Levi
“Sono diventato una figura un po’ eminente, perché sono il solo medico italiano. Ho creato mio assistente Primo Levi, dottore in chimica di Torino, che è un aiuto prezioso. Egli è molto intelligente e volenteroso e si è rapidamente impratichito del servizio che, a vero dire, non è difficile”. La missiva – datata 28 aprile del 1945, Katowice è firmata Leonardo De Benedetti,
medico sopravvissuto ad Auschwitz. A pochi mesi dalla liberazione del Lager, presta soccorso come medico in Polonia, aiutato da Primo Levi. Con quest’ultimo, come racconta Anna Segre nella biografia Un coraggio silenzioso. Leonardo De Benedetti, medico, sopravvissuto ad Auschwitz (Zamorani, 2008), condivide molti aspetti: entrambi sono ebrei torinesi, entrambi sono stati arrestati dopo l’8 settembre e vengono trasferiti nel campo di transito di Fossoli, da dove saranno deportati insieme il 21 febbraio 1944 verso Auschwitz. Qui la moglie del medico, Jolanda, viene subito assassinata nelle camere a gas. Nel campo è sottoposto ai lavori più duri, racconta Levi. Sopporta male la fatica e il gelo, ci dice ancora lo scrittore ne La Tregua, ricordando come “Per tre volte, in tre selezioni di infermeria era stato scelto per la morte in gas, e per tre volte la solidarietà dei suoi colleghi in carica lo aveva sottratto fortunosamente al suo destino”. Quando i sovietici avanzano nel gennaio del ’45 verso il Lager, i nazisti abbandonano Auschwitz lasciando dietro di sé a morire migliaia di malati, tra cui Leonardo e Primo. I due sopravvivono e a Katowice Levi aiuta De Benedetti – come racconta la lettera nel suo ruolo di medico. Il comando russo locale apprezza il lavoro di Nardo e Primo e a entrambi rilascia un encomio. Insieme tornano in Italia e insieme redigono il Rapporto sull’organizzazione medico-sanitaria del campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz Alta Slesia), su richiesta del Comando Russo del Campo di Concentramento di Katowice per Italiani ex-prigionieri. Ai medici, spiega Fabio Levi, “i vincitori si rivolgevano preferibilmente, nel tentativo di ricostruire un quadro
d’insieme di quanto era accaduto nei Lager. Loro in primo luogo erano infatti accreditati, per la natura della professione che svolgevano, del distacco indispensabile a descrivere i fatti in forma chiara e obiettiva, tanto più quando si voleva analizzare il trattamento subito dai milioni di corpi le anime sembravano lì per lì contare assai meno ammassati dai nazisti nel sistema dei campi”. Così De Benedetti, con l’aiuto di
Levi, scrive una dettagliata relazione per Mosca. Di quella prima stesura non vi è traccia, ma un’altra copia del rapporto, rimaneggiato, viene consegnata nel 1946 all’Ufficio storico del CLN che aveva sede a Torino. Dentro vi è il resoconto puntuale e scientifico dell’orrore del campo, pochi riferimenti all’esperienza personale, più una metodica analisi delle condizioni di vita dei prigionieri di Auschwitz. Il documento rappresenta una testimonianza preziosa e immediata della macchina dello sterminio. Molti però nell’immediato dopoguerra non vogliono leggere, ascoltare, vedere le immagini della Shoah. E per contrastare questa ignoranza, De Benedetti e Levi decidono di pubblicare il Rapporto anche su Minerva medica, rivista di settore con un pubblico però piuttosto ampio. La partigiana e medico torinese Isabella De Gennaro, ad esempio, leggerà lì per la prima volta il nome di Primo Levi. Ma prima di parlare di lei, ancora qualcosa sul rapporto tra Nardo e Primo. Tra i due nel tempo si consolida una profonda amicizia, c’è una grande differenza di età, quella tra due generazioni, ma anche un’affinità intellettuale e, ovviamente, di vita vissuta. Alberto Cavaglion in una recensione al libro di Segre ricorda anche l’ironia di De Benedetti, altro elemento in comune con Levi. Leonardo non sceglierà invece la strada della testimonianza pubblica: “E lei non ha mai pensato di scrivere qualcosa? Non le è mai venuto in mente di lasciare una memoria?”, gli viene chiesto nell’82 in un’intervista dell’Aned. “No, no, perché… per la semplice ragione che dopo il libro di Primo Levi non si può più scrivere niente, ha già scritto tutto lui. E se io scrivessi quello… scriverei un brutto libro per ripetere malamente quello che lui ha già scritto così bene. Le pare?”. L’amico Levi ha fatto da voce ad entrambi e a milioni di vittime. E di questo De Benedetti è grato. Come grato è lo scrittore per il sostegno e l’aiuto ricevuto dall’amico medico. Nella copia primogenita di Se questo è un uomo – recuperata dal Centro Primo Levi di Torino nel fondo De Benedetti, conservato all’Archivio Terracini – Primo Levi scrive sulla prima pagina: “A Nardo, senza il quale probabilmente questo libro non sarebbe mai stato scritto. Primo. 25 ottobre 1947”.
Chi quel libro lo compra è Isabella De Gennaro, partigiano e medico, profondamente cattolica, che per Natale decide di farsi un regalo e comprare Se questo è un uomo. Di Levi ha già letto il Rapporto sulle condizioni sanitarie di Auschwitz. Il nipote Piero De Gennaro quando nel 1999 la zia scompare trova il libro e dentro vi è riposto il numero della Minerva medica con la relazione di De Benedetti e Levi. Come De Benedetti, De Gennaro è un medico e come Nardo mette davanti a tutto l’impegno per curare i propri pazienti. “Mia zia era una donna profondamente generosa, con una solida etica cattolica e molto umile nei modi. Non raccontava del suo passato e si dedicava anima e corpo a bene dei suoi pazienti. Era una pneumologa. Lei stessa durante la guerra si era ammalata ai polmoni, probabilmente a causa delle condizioni precarie dovuta all’impegno da staffetta partigiana”. Isabella De Gennaro fu in
fatti Marisa, la partigiana della Divisione Campana durante la guerra. Ai partigiani prestò il suo servizio medico, aiutando feriti e malati e “percorrendo, con grande coraggio di notte le strade ed i sentieri montani della Va
lada dl’Armireul, dove era il Comando della Div. Campana”, ricorderà un necrologio di un giornale locale. Era legata a un altro partigiano locale, Guido Usseglio Mattiet, medico e poi Primario a Torino. “Mia madre, che aveva un rapporto di grande confidenza con mia zia (paterna), racconta il nipote Piero mi raccontò che la ‘zia Marisa’ teneva, nei mesi della lotta partigiana, una radio ricetrasmittente in camera da letto, nascondendo la cosa a suo padre, militare di sentimenti fascisti. Evidentemente la usava per ricevere informazioni e trasmetterle poi al dottor Usseglio e alla divisione Campana”. Quel suo eroismo, ancor più marcato visti i legami con il fascismo del padre e del fratello (militare imprigionato dagli alleati durante la guerra), non fu mai raccontato pubblicamente, sottolinea il nipote, probabilmente per pudore. La città di Torino comunque le conferì la propria riconoscenza pubblicamente per il suo impegno incessante per i malati: il 22 dicembre 1956 il sindaco di Torino le conferì un attestato di benemerenza istituito dal Comitato di coordinamento delle attività assistenziali; per riconoscimento a persone che dedicano disinteressatamente la loro assistenza ad alleviare le sofferenze del prossimo. “Fu quella sensibilità, immagino, ad avvicinarla al libro di Primo Levi, che comprò in prima edizione e conservò con cura per 50 anni. Sono contento di averlo trovato allora nella sua libreria”. Una piccola storia nella storia, che aggiunge significato a quell’immensa opera che è Se questo è un uomo.
Daniel Reichel