Museo d’Israele, il direttore Ido Bruno
“Una sfida entusiasmante”

Il museo come spazio di dialogo, di discussione, di confronto. Un dialogo che avviene su più livelli: tra visitatore e opera, tra le opere, tra curatori e direttore, tra la struttura museale e lo spazio circostante. Il tutto legato da un lavoro altamente professionale. “Dove c’è serietà, dove c’è capacità di mettersi in gioco e competenza, allora si ottengono risultati positivi” spiega a Pagine Ebraiche Bruno Ido, da novembre 2018 alla guida del Museo d’Israele a Gerusalemme. Una sfida che racconta essere “molto entusiasmante” in un momento storico in cui “i musei devono ridefinire stessi. Mettere in relazione il patrimonio culturale che conservano ed espongono con i nuovi linguaggi del presente”. Nato a Gerusalemme due anni prima della fondazione del Museo d’Israele (1965), Ido arriva dal mondo del design: da 25 anni insegna alla prestigiosa Accademia Bezalel, nel dipartimento di Design industriale. Prima di diventarne direttore, aveva già curato diverse mostre nel Museo, lavorando anche a un progetto di rinnovamento degli spazi di una struttura che rappresenta un fiore all’occhiello d’Israele.

Schermata 2019-07-18 alle 13.30.48Per chi non lo conosce, come descriverebbe il Museo d’Israele?
È una realtà ovviamente molto connessa con Gerusalemme. Non sarebbe possibile avere questo museo in nessun altra città del paese. È in un’area in cui si trovano molte istituzioni culturali e di governo, tra cui la Knesset, il parlamento israeliano. Per cui l’atmosfera che si respira è quella di essere nel cuore pulsante della città, in un hub culturale vivace e in fermento. Non è solo la geografia a caratterizzarlo ma anche la struttura modernista, ideata dall’architetto Alfred Mansfeld, ebreo di origine russa. Al suo progetto si affianca quello noto in tutto il mondo del Santuario del Libro, un edificio unico al mondo che custodisce manoscritti preziosissimi, inclusi i celebri Rotoli del Mar Morto. Tutta la struttura si integra perfettamente con il paesaggio circostante e ora è diventata un simbolo internazionale della città.


Che cosa custodisce il museo?
Circa 1,4 milioni di anni di creatività dell’uomo, dalla preistoria all’arte contemporanea. È uno dei principali musei enciclopedici del mondo e comprende una straordinaria collezione d’archeologia; la più larga collezioni di oggetti rituali ebraici; abbiamo sinagoghe ricostruite e provenienti da diversi luoghi del mondo, dall’Italia fino all’India. Abbiamo grandi capolavori europei, arte moderna e contemporanea proveniente da Sud America, Africa, Asia. Per questo dico che siamo un museo unico: possiamo contare su una collezione di 500mila oggetti a cui attingere per raccontare tante storie diverse e in modi differenti. E su questo credo sia importante lavorare: essere innovativi nel modo in cui facciamo dialogare gli oggetti con il pubblico. E poi abbiamo un altro patrimonio, a parte gli oggetti.


Quale?
I curatori. Sono i primi ad apprezzare e valorizzare il fatto di avere per le mani una collezione così diversificata. E insieme lavoriamo affinché ci sia un intreccio tra i diversi ambiti, dalla judaica all’archeologia.

Può fare un esempio di questo lavoro su diversi piani?
La mostra “Attraverso il tempo e lo spazio – Il diario dell’astronauta Ilan Ramon e un rotolo dal Mar Morto”. È una piccola esposizione ma è significativa: Ramon era un astronauta israeliano, tragicamente scomparso nel 2003 nell’incidente dello Shuttle Columbia. Alla tragedia sopravvisse il suo diario che la Nasa consegnò alla moglie Rona, che a sua volta lo diede al museo perché fosse restaurato. Io ebbi la fortuna di curare una mostra in cui furono esposte due pagine del diario. Poi, a distanza di anni, Rona (scomparsa nel dicembre 2018) decise che era arrivato il momento di mostrare tutto il diario del marito. Dopo un confronto tra noi, uno dei curatori suggerì di collegare le pagine di Ilan al Libro di Enoch, in cui viene descritto un viaggio nello spazio ma di duemila anni fa. Mi è sembrata un’idea perfetta, anche perché Ilan era molto legato alle sue radici ebraiche. È stato un modo per raccontare più storie in una.

Si confronta spesso con i curatori del Museo?
Sì. È fondamentale ascoltare cosa hanno da dire e creare degli spazi di condivisione delle idee. Abbiamo, ad esempio, costruito un momento in cui i curatori, anche quelli più giovani, presentano un’idea per un progetto possibile per il museo. Una mostra o altro. Hanno una decina di minuti a disposizione e tutti sono presenti ad ascoltarli: chi si occupa d’arte, di archeologia, di design, di fotografia. E così le idee entrano in circolo, quelle buone vengono sviluppate e così via. Per me è un passaggio fondamentale.
Quando costruite una mostra avente in mente quale visitatore la vedrà?
Abbiamo soprattutto in mente quale sarà la sua esperienza. Quando penso a una mostra penso a Daniel che entra al museo, mi chiedo cosa vede come prima, cosa succede se sale o passa da una mostra all’altra. Come queste interagiscono l’una con l’altra. Non devono essere collegate ma il passaggio deve garantire una buona esperienza al visitatore. Quella è la nostra chiave di lettura. È per questo che programmiamo due anni prima le mostre.

La società israeliana è molto diversificata. Questa eterogeneità trova rappresentazione nel museo?
In una certa misura. Noi non siamo un museo storico. Siamo un museo d’arte, ci occupiamo di raccontare storie attraverso gli oggetti che abbiamo nella collezione e intrecciarle.
Non troverete da noi un percorso espositivo dedicato solo agli arabi, ai haredi, a nazionalreligiosi, ai laici. Ma attraverso gli oggetti i visitatori possono scoprire qualcosa su ciascuna di queste realtà. Abbiamo 900mila visitatori all’anno, di cui il 40 per cento sono turisti da fuori, e vogliamo mostrare loro – che siano italiani, cinesi, arabi, ebrei – qualcosa di interessante.

Tra le esposizioni in corso al Museo c’è “Manifesto” di Julian Rosefeldt che racconta come l’arte possa essere politica e provocazione. Pensa che un museo debba essere in qualche modo provocatorio e politico?
La società israeliana è una società in cui tutti hanno opinioni forti, spesso molto emotive. Non solo in relazione ai palestinesi, ma anche tra religiosi e non, o tra correnti religiose all’interno dell’ebraismo. Questi temi compaiono nel museo ma filtrati attraverso le opere d’arte. Qui puoi parlare di questioni delicate ma non lo fai frontalmente, lo fai attraverso quello che l’artista voleva trasmetterti. Non diamo spazio a questioni prettamente politiche ma i temi sociali ovviamente entrano e nel museo si può trovare uno spazio mediato, libero dalle tensioni esterne, in cui l’atmosfera è tranquilla e non è intossicata dalla rabbia.

Avete progetti per attirare visitatori che magari non rappresentano il classico pubblico che frequenta i musei?

Certo. Lavoriamo ad esempio con gli arabi di Gerusalemme Est, facciamo laboratori per portare qui i giovani delle periferie d’Israele o persone che hanno difficoltà ad arrivare fino da noi. Facciamo un festival di Jazz, ospitiamo spettacoli di danza. Cerchiamo di essere un contenitore di futuro, da cui nessuno si senta escluso.
Non siamo un luogo polveroso, con corridoi scuri. Ma un polo di attrazione sempre più rilevante per la società in cui siamo immersi. Lo dimostra il grande affetto per la nostra istituzione, che porta ad esempio le persone a donarci le loro collezioni private perché credono in ciò che facciamo. Ma anche il fatto che stiamo diventando un posto in cui israeliani e non possono incontrarsi, confrontarsi e sentire un’appartenenza.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Luglio 2019

(Foto di Ofrit Rosenberg, Museo d’Israele a Gerusalemme)