Vaccino, test rapidi e nuovi farmaci Israele in prima linea contro il virus
In tutto il mondo c’è una corsa contro il tempo per sconfiggere il Covid-19. Tre sono le armi necessarie: un test affidabile, rapido e che consenta di analizzare i dati di ampie fasce della popolazione contemporaneamente per diagnosticare precocemente i portatori di virus; farmaci per curare gli ammalati prima che i sintomi si aggravino in modo irreversibile; e un vaccino che consenta di tornare alla normalità (o, si spera, a una normalità più consapevole e attenta a un futuro sostenibile), immunizzando preventivamente la popolazione.
Su tutti e tre i fronti, Israele è all’avanguardia.
Del vaccino che è in attesa del semaforo verde delle Autorità per i test di fase 3, abbiamo già parlato nei giorni scorsi. È stato messo messo a punto dal Migal Galilee Research Institute e nasce dall’esperienza con il coronavirus aviario, sul quale l’azienda sta lavorando da quattro anni. Si tratta di uno dei tre progetti che sembrano presentare le maggiori chances di successo, in quanto utilizzano virus già testati e possono quindi saltare la fase 1 e 2 di sperimentazione e avere un via d’accesso rapida alla fase 3. Gli altri due sono un vaccino americano, veicolato non via iniezione, ma grazie a un cerotto, che nasce dalla ricerca del 2003 per vaccino contro la SARS, poi abbandonato perché il virus scomparve da solo. È stato messo a punto presso il Medical Center dell’Università di Pittsburgh da un team di ricercatori guidati dall’italiano Andrea Gambotto. E c’è infine un interessante progetto italiano, prodotto dalla IRBM di Pomezia insieme allo Jenner Institute dell’Università di Oxford ( “Due donne per un vaccino”).
Per quello che riguarda la diagnostica, presso l’Università ebraica di Gerusalemme un team guidato dai professori Nir Friedman e Naomi Habib ha sviluppato un test molto rapido ed economico, con materiali che si trovano comunemente in ogni laboratorio diagnostico e possono quindi essere reperiti ovunque in tempi brevi e a basso costo, senza doverli importare dall’estero. “È un protocollo da quattro a dieci volte più rapido di quelli attualmente utilizzati” spiega Naomi Habib, che lavora presso l’Edmond and Lily Safra Center for Brain Science (ELSC) della Università ebraica. Si basa sull’utilizzo di nanoparticelle magnetiche (magnetic beads) che posso essere analizzate sia roboticamente che manualmente. “Per il momento queste nanoparticelle magnetiche sono l’unica componente che deve essere importata, almeno in Israele – spiega Friedman, docente presso l’Institute of Life Sciences and School of Engineering and Computer Science dell’Università ebraica – ma possono essere riciclate e usate più volte”. Con questa metodologia, decine di migliaia di campioni possono essere testati simultaneamente, grazie al sequenziamento genomico. E poiché la ripresa delle attività in tutto il mondo dipende dalla possibilità di testare in modo massiccio la popolazione per individuare in modo precoce e sicuro gli infetti e i portatori di virus, l’importanza di questo test a livello sociale ed economico è facilmente intuibile. La professoressa Habib terrà un webinar organizzato dalla HUJ il 6 maggio 19 ora italiana (qui per registrarsi. La partecipazione è aperta a tutti gli interessati e gratuita).
Altrettanto sensazionale è la notizia, apparsa sulla stampa israeliana nei giorni scorsi, di un nuovo farmaco rivoluzionario, basato sulle cellule staminali, che non cura i sintomi ma combatte il virus in sé. Un farmaco sistemico e intelligente, messo a punto da una compagnia biotech basta a Haifa, Pluristem Therapeutics, che, somministrato a pazienti a rischio di morte per problemi respiratori, cardiaci e renali, li ha guariti al 100%. Il campione è troppo piccolo per essere significativo, ma in attesa dei via libera delle autorità competenti per una sperimentazione ampia e internazionale, si continua la somministrazione compassionevole ai pazienti a rischio di vita che la richiedono, sia in Israele che in America. Il laboratorio utilizza cellule staminali allogeniche espanse (PLX) ricavate dalla placenta, che si ritiene possano invertire o addirittura sopprimere la iperattivazione del sistema immunitario, che è quella che provoca l’esito letale in molti malati di coronavirus. Le cellule staminali vengono programmate per secernere proteine terapeutiche una volta iniettate. Sono proteine intelligenti, che hanno una doppia attività: riducono l’infiammazione e “rilassano” il sistema immunitario che, iperattivato dalla malattia, attacca gli organi del paziente stesso, invece che rivolgersi contro il virus. “Inoltre queste proteine intelligenti rilevano e interpretano i segnali emessi dal corpo e si autoregolano nel secernere il dosaggio necessario individualmente ”spiega Yaky Yanay, presidente e CEO della compagnia. La dose somministrata è quindi unica, 15 millilitri di cellule PXL, iniettata per via intramuscolare. E, aggiunge Yanay, “la nostra tecnologia ci consente di produrre quantità massicce di farmaco rapidamente: possiamo curare 20.000 pazienti attraverso le staminali ricavate da una singola placenta”. Rimane solo da sperare che la sperimentazione di massa confermi le speranze accese dai primi successi e che i costi del farmaco siano sostenibili.
Viviana Kasam