Scoprire Ferrara, con Bassani

Inizio una nuova esperienza al Meis di Ferrara. E sento subito la necessità di capire di più di questa città che è come uno scrigno di meraviglie. Che segno profondo ha lasciato qui il Rinascimento. A partire dai bastioni che ti abbracciano senza soffocarti, indicandoti ovunque tu sia la strada maestra per raggiungere il cuore pulsante esteso fra il castello e piazza delle Erbe, oggi Trento e Trieste. Mi incuriosiscono i toponimi e imparo che il corso della Giovecca, una delle arterie principali che dal centro si spingono fino all’arco monumentale che fa da porta detto “la prospettiva”, non è che la copertura della fossa zuecca ai tempi di Ercole d’Este. Affiorara così subito il legame col mondo ebraico, forse un segno del primo insediamento detto zudecca, secondo altri si tratta invece del canale di scolo di acque reflue della lavorazione delle pelli (zudecare-conciare). La città e i suoi ebrei, sono i vuoti che devo al più presto colmare con appropriate letture. Bassani, come no, ma su cosa concentrarmi oltre al Giardino dei Finzi Contini, letto più di una volta. Mi suggeriscono le Cinque storie ferraresi. È proprio quello che cercavo. Quell’intreccio tra i luoghi e le persone che grazie alla maestria di chi è cresciuto e appartenuto agli uni e agli altri, prendono spessore e forma. Le pagine raccontano di una città che sogna ma forse ancora di più sonnecchia, di una comunità ebraica che nel corso di un secolo perde inesorabilmente tante, troppe foglie. Un lungo autunno, ed un tronco, una volta vigoroso che purtroppo è colpito ferocemente da una scure, quella della Shoah che si abbatte in modo più crudele che altrove in Italia, portando via quasi la metà dei suoi rami. La lapide di via Mazzini, una volta via dei Sabbioni e cuore del ghetto con incisi i nomi di chi non è tornato, è il titolo di uno dei racconti. Questa volta però è il segno di una ferita, di una lacerazione tra i luoghi, la città e una parte dei suoi abitanti. Il protagonista della storia, Geo Josz, reduce dai campi, è un personaggio fin da subito ingombrante – persino fisicamente – per la città, che rifiuta di fare i conti con il proprio passato. Concludo il libro ad Amsterdam mentre ripercorro il quartiere e le sinagoghe dove viveva l’80 per cento degli ebrei olandesi ingoiati nel vortice e penso che sentimenti diversi mi avrebbe suscitato il libro se fossi stato lontano da qui.

Amedeo Spagnoletto, rabbino
Dossier Libri in valigia, Pagine Ebraiche Agosto 2020