Israele-Emirati: l’accordo è storico 
ma con interpretazioni non unanimi

Aprendo il suo programma sulla popolare radio israeliana Reshetbet, il giornalista Ran Binyamini ha scelto di rivolgersi al pubblico in arabo: “Buongiorno ai residenti degli Emirati Arabi Uniti. Non vediamo l’ora di visitarvi e di vedervi qui. Questo accordo ci farà avanzare verso un futuro migliore di cooperazione, amicizia e pace”. Un modo leggero per sottolineare l’importanza dell’intesa raggiunta da Israele con gli Emirati Arabi Uniti, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, che porterà alla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi. Un passaggio importante, che apre a nuovi scenari in Medio Oriente e ufficializza i rapporti tra Israele e il paese del Golfo, da tempo noti ma mai resi palesi. “L’inizio di una nuova era”, ha dichiarato il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Un primo passo verso nuovi accordi con altri paesi arabi, ha evidenziato il Presidente Usa Donald Trump, definendo l’intesa come un “enorme successo”.
Media e commentatori israeliani – in vera fibrillazione in queste ore, con un fiume di analisi, articoli, servizi pubblicati – sono concordi nel definire l’annuncio un passo decisivo per Israele. Non c’è però unanimità rispetto alla direzione che dovrebbe rappresentare questo passo. “L’accordo tra Israele e Emirati Arabi Uniti è una pietra miliare importante e strategica verso nuovi processi nella nostra regione. Mi auguro che questo passo porti anche al rafforzamento della fiducia necessaria tra noi e i popoli della regione per raggiungere un accordo ampio e stabile tra tutti noi”, la lettura del presidente d’Israele Reuven Rivlin. Un accordo che arriva con la promessa del Premier Netanyahu di sospendere l’annunciata annessione di alcuni territori della Cisgiordania. “Da un lato, Netanyahu sta firmando uno storico accordo di pace e, dall’altro, sta creando uno Stato palestinese”, scrive Ghili Cohen, corrispondente politica dell’emittente Kan. La giornalista sostiene che l’intesa con gli Emirati Arabi Uniti sarà il primo passaggio per la riapertura di una trattativa con i palestinesi sulla linea Due Stati per due popoli: del resto, è quanto hanno sostenuto gli stessi rappresenti degli Emirati così come Jared Kusher, genero e stretto consigliere del Presidente Usa Donald Trump. Pace in cambio di pace. “Netanyahu sta firmando un accordo di pace con una mano (probabilmente nei prossimi mesi sui prati della Casa Bianca) – scrive la Cohen – e con l’altra mano sta creando uno Stato palestinese. Sarà uno Stato non convenzionale, il cui esercito sarà probabilmente Tsahal (l’esercito israeliano), ma il messaggio politico è chiaro. ‘Si può definire uno Stato palestinese, c’è chi lo definirà in (altri) termini’, ha detto ieri Netanyahu. ‘Io non lo definisco, io dico: ciò che conta è l’essenza, non le etichette’. Lo stesso vale per l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti”. Nella lettura della Cohen – e di molti altri come Anshel Pfeffer di Haaretz ma anche come Bezalel Smotrich, parlamentare del partito nazionalreligioso HaBayt Hayehudi – la sospensione prevista nella dichiarazione significa che non ci sarà nessuna estensione di sovranità israeliana. Non è invece d’accordo Boaz Bismuth, direttore del quotidiano più filo-Netanyahu d’Israele, Israel Hayom: “Il nuovo Medio Oriente ha alzato la testa ieri – ma in modo molto diverso da quello che hanno cercato di venderci. Israele è una potenza regionale che firma un accordo di pace senza chinare la testa e senza cedere territori. È vero, volevamo la sovranità ora ma l’idea è stata solo posticipata”. Bismuth si spinge fino a dire che l’intesa raggiunta da Netanyahu con gli Emirati Arabi Uniti è più importante della pace raggiunta da Begin nel 1979 con l’Egitto e da Rabin nel 1994 con la Giordania. “A differenza degli accordi di pace raggiunti dal defunto Menachem Begin e dal defunto Yitzhak Rabin, questa volta la pace è pace, senza complessi”, scrive Bismuth, riferendosi alle concessioni territoriali compiute dai due leader israeliani per mettere fine a decenni di sanguinose guerre. Ma è dalle colonne del suo stesso giornale che arriva una dura contestazione – da destra – alle sue tesi: “Si firma un accordo di pace con uno o più paesi contro i quali esiste in pratica uno stato di guerra. Con gli Emirati, a differenza che con Egitto, Siria, Libano o Giordania, non abbiamo mai combattuto. Possono essere stati un nemico formale, ma in pratica sono stati a lungo un amico non ufficiale. La buona notizia della normalizzazione con questi Paesi ci farà bene al cuore a breve termine. Il rifiuto e forse anche l’abdicazione della sovranità nei territori della Giudea e della Samaria, d’altra parte, può rivelarsi un grido che risuonerà per generazioni. – scrive Nadav Shragai – Non è troppo tardi. Abbiamo annesso Gerusalemme e le alture del Golan (anche se in condizioni diverse) senza il consenso degli Stati Uniti, e il cielo non è caduto. Se non ora – quando?”. Shragai è tra coloro che sperano ancora che l’annessione si farà. Netanyahu ha ribadito che accadrà ma a giudicare dalle reazioni, in pochi ci credono, soprattutto a destra – dal citato Smotrich fino al leader di Yamina Naftali Bennett, megafono politico di chi vive negli insediamenti in Cisgiordania che lavora assiduamente per presentarsi come alternativa al leader del Likud. “Mi sento ingannato!”, ha dichiarato alla radio israeliana 103 Fm Yossi Dagan, capo del Consiglio regionale della Samaria: “Netanyahu vende il futuro della Giudea e della Samaria in cambio di aria. Sono sotto shock! C’è un limite a quanto si può ingannare. C’è un limite al cinismo”. Per Ron Ben-Yishai, pluripremiato analista militare di Yedioth Ahronoth, “Netanyahu merita i complimenti. Ha ottenuto con successo due importanti vittorie in una volta sola: ha consegnato un accordo di pace con un’importante nazione araba e ha anche trovato la scala con cui scendere dalla sua promessa di estendere la sovranità israeliana su alcune parti della Cisgiordania, una mossa che non ha mai voluto portare a termine”. E sulla stessa lunghezza d’onda, l’analisi di un altro celebre giornalista israeliano, Ben Caspit (Maariv), altrettanto noto per essere un fervente critico del leader del Likud. “Se ci liberiamo dal rumore di fondo, allora l’annuncio di una roadmap verso la normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è un’ottima notizia e anche una buona conquista storica per il governo di Netanyahu. Il problema è che in Medio Oriente in generale e in Israele in particolare, il rumore di fondo è la realtà, e non fa ben sperare per Netanyahu. Ha guadagnato qualche punto nel centro-sinistra, che ama gli accordi con gli arabi, ma ha perso più punti nella base dei suoi elettori di destra. Il motivo è semplice: tutti capiscono che la promessa di annessione è decaduta. Il sogno è svanito”. Per Caspit il merito dell’accordo con gli Emirati è legato anche all’opposizione contro il piano di annessione portata avanti dagli alleati di coalizione Benny Gantz e Gabi Ashkenazi, rispettivamente numeri uno e due di Kachol Lavan e ministri della Difesa e degli Esteri. I due non hanno avuto nessun ruolo concreto nell’iter diplomatico che ha visto Netanyahu giocare da solo le sue carte con gli emissari di Trump e lo sceicco Mohammed Bin Zayad. Ma per Caspit – e non solo – l’essersi messi di mezzo al piano di annessione ha generato una pressione – accresciuta dalle richieste americane di concessioni ai palestinesi – che ha portato Netanyahu a rimescolare il mazzo. Una tesi che sembra un po’ forzata, certo è che l’ala della sinistra, dal capo dell’opposizione Yair Lapid al sindaco laburista di Tel Aviv Ron Huldai, ha accolto con grande favore l’annuncio dell’intesa. L’estrema sinistra invece, così come i palestinesi, hanno denunciato gli Emirati arabi come dei traditori perché “normalizzano l’occupazione israeliana nei territori”. Paradossalmente, un punto di vista che – in termini ovviamente diversi – coincide con quanto dichiarato da Oded Revivi, il sindaco di Efrat, noto insediamento israeliano in Cisgiordania. Revivi ha elogiato Netanyahu per aver trasformato l’annunciata annessione a vantaggio di Israele. “Non stiamo davvero pagando un prezzo, eppure andiamo avanti con la normalizzazione”, ha detto il sindaco di Efrat al New York Times.
“La normalizzazione probabilmente non convincerà chi pensa che Netanyahu deve andare a casa perché accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia, e non necessariamente attirerà nuovo pubblico. Ma per una sera, – la lettura della giornalista Tal Shalev di Walla – invece di dividere e separare, (Netanyahu) ha parlato la lingua del consenso israeliano. Per una sera non ha parlato con faccia severa di chiusure e restrizioni (a causa della pandemia), ma di nuovi orizzonti e opportunità per il futuro”.

Daniel Reichel