Rossana, Roberto e Jonatan:
la famiglia prima di tutto

In un pomeriggio afoso, alle 18.45 del 12 agosto 1960, nacque il nostro primogenito. Nella speranza che fosse un maschio, avevamo già scelto il nome. Mio padre, nei momenti di allegria, diceva spesso a mia madre: “Sai, non mi piacerebbe che il nostro nipotino si chiamasse Rubino come me… Roberto! Mi piace Roberto…”. E così chiamammo il nostro primo figlio, rispettando il desiderio del nonno che non ha potuto conoscere. Fin dal nome, io e Rossana abbiamo deciso insieme tutto ciò che ha riguardato i nostri figli, la loro crescita ed educazione. Abbiamo cercato di inculcare loro il valore del rispetto, dell’amicizia, il senso profondo di appartenenza a una comunità, attenti a che riconoscessero l’importanza dello studio e delle buone letture, senza rinunciare a qualche svago. Attraverso i nostri figli, nel corso degli anni, ha potuto ulteriormente cementarsi l’affetto, la stima e il rispetto tra me e mia moglie, insieme alla capacità di condividere tanto i momenti felici quanto quelli difficili. Sono stati di grande aiuto in tutto ciò i miei suoceri, il modo in cui mi hanno accolto fin dal primo momento come un figlio. Il padre di Rossana, Lello Piattelli, provava un effetto addirittura possessivo nei miei riguardi. Era noto nell’ambiente ebraico per la sua grande bontà e il suo amore verso Eretz Israel. Ricordo i tanti sabati mattina trascorsi insieme, dopo la tefillà. Se per un qualunque motivo, un’emergenza, un parente o un amico che richiedeva la mia presenza altrove, ero costretto a salutarlo e allontanarmi, mio suocero metteva su un’espressione contrita da cui trapelava tutto il dispiacere per non poter gustare come al solito quelle due ore mattutine in mia compagnia. Sì, mi voleva bene. E gliene volevo anch’io. Jonatan, il nostro secondo figlio, è nato il 5 gennaio 1965, corrispondente al 2 di Shevat, una giornata miracolosa per noi ebrei romani, chiamata Mo’èd di Piombo. Dal XVIII secolo dell’era volgare è nostra tradizione celebrarla e festeggiarla, omettendo dalla preghiera mattutina e vespertina i brani che riguardano la penitenza e consumando pasti più ricchi del solito. Nel 1753 (anno ebraico 5553), in quel giorno, il “popolino” romano tentò di dare fuoco al “Complesso delle Cinque Scholae”. Fu allora che il cielo, da chiaro e luminoso che era, diventò d’improvviso scuro e plumbeo. Cominciò a piovere e piovve sempre più forte, finché la pioggia finì per spegnere l’incendio, evitando il diffondersi del rogo e un danno assai più grave. Ecco, l’espressione Mo’èd di Piombo vuole ricordare il colore che a un tratto prese il cielo in quella circostanza, e la festa celebra quella ricorrenza. Eventi di questo genere, che hanno il sapore del miracolo, si sono verificati in molti altri posti nel corso dei secoli, dall’Europa dell’Est all’Africa settentrionale, e sono stati catalogati sotto il nome di Purim locali. Il richiamo a Purim serve a ricordare quello che, nella nostra tradizione, è il “miracolo per eccellenza”, quando Ester salvò il suo popolo dallo sterminio.

Rav Vittorio Della Rocca, Chiedi a tuo padre e te lo dirà, ed. Salomone Belforte