“Contro la Corte penale internazionale,
la via d’Israele è la diplomazia”

“Ci vorranno anni prima che l’inchiesta della Corte penale internazionale sui presunti crimini d’Israele arrivi a un punto. E non vedo come una prospettiva realistica che singoli israeliani vengano incriminati all’Aia. La questione qui è quale effetto avrà un’inchiesta simile sull’immagine d’Israele. La renderà uno stato paria?”. Per il giurista israeliano Amichai Cohen è questo il punto centrale di tutta la vicenda legata alla probabile inchiesta che la procura della Corte penale internazionale (CPI) avvierà contro Israele e Hamas nel prossimo futuro. Probabile perché la procuratrice della CPI Fatou Bensouda aveva già dichiarato nel 2019 di ritenere che ci fossero, a suo giudizio, gli estremi per aprire un’inchiesta contro Israele e contro il gruppo terroristico di Hamas. Per proseguire però Bensouda aveva bisogno che la Corte penale internazionale confermasse di avere giurisdizione su Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza. Una conferma arrivata con decisione del 5 febbraio scorso, a cui il governo israeliano ha replicato duramente. “Israele non è parte della CPI e non ha acconsentito alla sua giurisdizione. Solo gli Stati sovrani possono delegare la giurisdizione alla Corte, e non esiste, né è mai esistito, uno Stato palestinese. – la decisa contestazione del ministero degli Esteri israeliano – La Corte dell’Aia è stata istituita per affrontare atrocità di massa che scuotono profondamente la coscienza dell’umanità; non per perseguire Stati democratici con sistemi giuridici indipendenti ed efficaci. Con questa decisione, la Corte ha purtroppo ceduto alla politicizzazione, ha violato il suo mandato e si è lasciata trascinare in un conflitto politico, prendendo decisioni sbagliate su questioni sulle quali non ha autorità, e che le parti stesse hanno concordato debbano essere risolte con negoziati diretti”. Israele, spiega Cohen a Pagine Ebraiche, ha contestato alla Corte la sua giurisdizione perché non è tra gli Stati firmatari del Trattato internazionale istitutivo della CPI (Trattato di Roma del 1998). Inoltre, ha contestato la presenza dei palestinesi tra i firmatari dell’accordo: solo gli Stati sovrani possono aderirvi (l’adesione dà diritto a fare ricorso alla CPI), e non esiste uno stato sovrano palestinese. “I giudici hanno detto di non voler entrare nel merito di questo ultimo punto. – spiega Cohen, decano della facoltà di legge dell’Ono Academic College – Dicono che se i vertici dell’Onu non hanno contestato quella firma, per loro è valida. Poi si sono concentrati sulla questione del territorio su cui hanno giurisdizione. Richiamando le risoluzioni Onu, hanno dichiarato che la giurisdizione territoriale della Corte ‘in Palestina si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, cioè Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est’ (così la lettera della sentenza della CPI citata da Cohen)”.
Su queste basi, rileva il giurista israeliano, la procuratrice Bensouda potrà portare avanti la sua inchiesta che si basa su tre punti: indagare Israele rispetto a presunti crimini commessi durante la guerra del 2014 contro Hamas (anche indagato e che ha rifiutato la giurisdizione della Corte); indagare Israele in merito alla violenze durante le manifestazioni al confine tra Gaza a partire dal marzo 2018 e in generale la politica degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. “Sarà molto difficile in tutte e tre per la Corte trovare dei responsabili diretti e si tratta di un lavoro che durerà anni e anni. In più, per il primo caso, il tribunale dell’Aia deve tenere conto di un elemento fondamentale: Israele ha fatto delle inchieste interne per verificare se siano stati commessi crimini o violazioni da parte dei suoi militari”. Cohen evidenzia come la democrazia israeliana si sia messa in moto attraverso le proprie procedure per andare a fondo di quanto accaduto nel 2014. “Lo Stato israeliano ha indagato, ha raccolto una mole enorme di materiale, ha trovato alcune violazioni. E questo toglie legittimità al ricorso alla Corte penale internazionale, che può essere coinvolta solo e soltanto se lo Stato non ha effettuato le dovute indagini”. Quindi il primo caso dovrebbe essere chiuso in partenza.
Ora l’interrogativo è sui prossimi step della procura della CIP. Se procederà come sembra ad aprire formalmente l’indagine c’è un rischio concreto per i rappresentanti d’Israele di poter svolgere regolarmente le proprie funzioni all’estero. “Il procuratore, Bensouda, – scrive il giurista Eitan Gilboa, esperto di diritto internazionale – può convocare personalità come primi ministri, ministri della difesa, ufficiali militari e alti funzionari per un interrogatorio. Naturalmente si rifiuteranno, e allora lei potrà emettere mandati d’arresto contro di loro. Presumibilmente, i 122 paesi firmatari del Trattato di Roma dovranno eseguire tali ordini, il che causerà gravi danni pratici e d’immagine a Israele”. Proprio su questo punto, aggiunge Cohen, si gioca la partita israeliana, ovvero fare in modo che gli Stati firmatari facciano pressione sulla Corte per abbandonare il caso o rimandarlo per lungo tempo. Alcuni, come la Germania, hanno già espresso la loro contrarietà all’inchiesta, sottolineando che la Corte non ha giurisdizione. Una posizione simile a quella degli Stati Uniti, firmatari dello Statuto di Roma, ma non tra coloro che l’hanno ratificato. “Attraverso la diplomazia, Israele dovrà lavorare su più fronti. Tra questi, sul nome del futuro procuratore della CIP. – spiega Cohen – Bensouda è a fine mandato e sarà importante capire chi sarà designato al suo posto”. Il giurista israeliano ribadisce di non essere preoccupato per eventuali indagini sui singoli israeliani, ma come sia necessario il lavoro diplomatico per evitare che l’inchiesto possa danneggiare l’immagine d’Israele. “Sul terreno dubito che questa vicenda avrà qualche effetto. Israele, lungo tutto il suo conflitto con i palestinesi, ha sempre rispettato in ogni modo le regole d’ingaggio e proseguirà su questa strada. Anche in tema di insediamenti nulla cambierà. Il rischio dell’inchiesta per Israele è soprattutto quello di essere messa sulla difensiva internazionale. Forse ha un certo valore per i palestinesi, se questo è il loro obiettivo. Ma le questioni fondamentali sul terreno rimarranno le stesse”.

Daniel Reichel