High Tech israeliano, il contributo della diversità
In Israele il settore dell’High Tech è uno di quelli con i redditi più elevati ed è quello che ha meglio resistito alla crisi economica provocata dalla pandemia. Tuttavia non ha creato nuovi posti di lavoro ed è poco “inclusivo” nei confronti delle fasce sociali più deboli: tra i suoi addetti ci sono poche donne, pochi ebrei haredi e pochi cittadini arabi. Per quali motivi questo settore non riesce a “diversificare” la composizione della sua manodopera, rinunciando spesso a crescere, vista la difficoltà di assumere manodopera straniera?
Il problema del “nanismo” e della scarsa “inclusività” di questo settore non è nuovo: da circa 20 anni l’high tech rappresenta solo il 10% degli occupati in Israele, con circa 300 mila addetti. Nei mesi scorsi l’Autorità Nazionale israeliana per l’Innovazione ha analizzato il problema e ha individuato 5 fattori che spiegano questa scarsa “inclusività”, che è più acuta nelle piccole imprese e nelle start-up che non nelle grandi imprese high-tech, che possono permettersi il costo di formare “in casa” i propri dipendenti.
In primo luogo manca manodopera qualificata: la quasi totalità degli addetti è di sesso maschile, proveniente dalle zone centrali del paese (la “grande Tel Aviv”) ed ha prestato servizio militare nelle unità più “tecnologiche” dell’esercito. Se ci sono pochi laureati haredi e arabi in materie scientifiche si deve anche al sistema scolastico israeliano, che soffre di elevati divari qualitativi tra le scuole del “centro” e quelle della “periferia” del paese, come testimoniato dai test comparativi “Pisa”. Se si aggiunge la scarsa conoscenza dell’inglese da parte di queste minoranze il divario si fa incolmabile.
In secondo luogo i membri delle minoranze non dispongono di una “rete di contatti”: molte aziende high-tech chiedono ai propri dipendenti, in particolare ai nuovi assunti, di segnalare i nominativi di ex-colleghi ed ex-commilitoni di talento, che vengono poi contattati e “soffiati” alla concorrenza.
Il terzo fattore frenante è rappresentato dai “reclutatori”, ossia degli addetti alla selezione del personale: sono essi che talvolta, anche in buona fede, impostano in modo errato i colloqui pre-assunzione oppure fanno troppo affidamento sul “passaparola” invece che su una valutazione attenta e imparziale del candidato.
In quarto luogo le aziende high-tech sono “sessiste”: i lunghi orari di lavoro e le scadenze pressanti fanno sì che le donne lasciano questo tipo di lavoro attorno ai 35 anni perché incompatibile con la maternità; sarebbe compito dei datori di lavoro (maschi) creare un ambiente di lavoro che consenta questa “conciliazione”.
Il quinto e ultimo fattore che penalizza le minoranze, in particolare quella ultra-ortodossa, è il divieto di lavorare il sabato: molte aziende high-tech hanno bisogno di centinaia di addetti per compiti “ausiliari”, per esempio il “servizio clienti”, che potrebbero essere svolti egregiamente da israeliani: tuttavia questi addetti devono lavorare anche il venerdì sera e il sabato, ad esempio per i clienti nordamericani, e in Israele occorre una speciale autorizzazione per lavorare il sabato; quasi sempre le aziende rinunciano e si affidano a call center all’estero.
Aviram Levy, economista, Pagine Ebraiche Febbraio 2021