Le testimonianze dei giovani Italkim
“Da Gerusalemme a Tel Aviv,
torniamo finalmente a respirare”

La sensazione comune è che finalmente Israele sia tornata a respirare. Quasi a pieni polmoni. Non solo perché all’aperto, da metà aprile, è caduto l’obbligo di mascherine, ma anche perché la vita in tutto il paese è ripartita. Si può andare al bar, al ristorante, alle partite negli stadi, ai concerti, a teatro. Non a pieno regime, ma migliaia di persone possono comunque stare insieme. Insomma si può tornare a una vita pre-covid, come dicono a Pagine Ebraiche alcuni giovani italkim, raccontando le loro emozioni in questa nuova fase per loro e per il paese. “È bellissimo poter camminare per strada e rivedere in faccia le persone. I sorrisi, le espressioni del volto”, racconta Naomi Stern da Tel Aviv. “C’è veramente la sensazione di un ritorno alla vita. E riscopri il piacere delle piccole cose: una chiacchierata all’aperto in serenità con gli amici. Senza parlare di virus e di contagi”, aggiunge Naomi Avrilingi da Gerusalemme. “La sensazione è di essere finalmente nel dopo. – afferma Michael Sierra, anche lui da Gerusalemme – Io frequento Giurisprudenza all’Università Ebraica e la pandemia sta diventando sempre più un oggetto di studio, dalle questioni sulla privacy al tema della restrizione delle libertà personali”. È un processo che è iniziato presto, sottolinea, ma il fatto che la pandemia sia ora guardata più da lontano, come materia di studio appunto, aumenta la sensazione di distanza.
Per tutti e tre però il legame con l’Italia, dove vivono parenti e amici, è un costante monito che la pandemia è ben presente. “Non dico che mi sento in colpa perché sono qui, libera, vaccinata. – afferma Stern – Posso dire però che vivo con grande consapevolezza questa nuova normalità”.
Una sensazione simile a quella raccontata da Avrilingi. Per lei, assistente sociale in un piccolo ospedale di Maale Adumim, la crisi sanitaria è stata una presenza fissa nel lavoro quotidiano. “Da un lato avevo la libertà di andare a lavoro. E quindi sentivo meno il peso della chiusura, dall’altro ci siamo trovati a dover spiegare ai parenti dei ricoverati che non potevano più entrare a visitare i loro cari. E il carico di tensione è aumentato”. Come assistente sociale, spiega, è abituata a farsi carico dei problemi delle famiglie, in particolare dei pazienti terminali che segue, dando risposte su questioni burocratiche e non solo. Ma la pandemia ha accentuato tutte le difficoltà. Per questo la fine dell’ultimo prolungato lockdown – da Hannukkah fino a Purim – le ha tolto un peso dalle spalle. “Ho come ricominciato a respirare. Una sensazione di rinascita. Anche solo il barbecue con gli amici a Yom HaAtzmaut, senza ansia di contagio, senza lo stress del distanziamento, tutti vaccinati, tutti sorridenti. Ho sentito che finalmente qualcosa è cambiato”.
Dall’altro lato, aggiunge, quando finalmente è tornata a incontrare di persona gli amici, seduta a tavola in uno dei locali di Mahane Yehuda stracolmi di giovani, si è resa conto di quanta ruggine si fosse accumulata nei mesi di distanziamento. “Ho avuto una prima sensazione di difficoltà a socializzare, come se avessi perso ogni naturalezza nel ridere e scherzare con gli amici. Poi tutto è tornato al suo posto, ma quella prima impressione mi ha fatto effetto”.
Tutti e tre raccontano la sensazione di sollievo dopo aver ricevuto il vaccino. “So che in Italia non è così, – racconta Sierra – io ho avuto la possibilità di vaccinarmi presto perché ho ricevuto una dose che altrimenti non sarebbe stata utilizzata. L’ultima della giornata”. Dagli anziani ai giovani, sottolinea, la vaccinazione in Israele ha funzionato alla perfezione e ha permesso la progressiva riapertura in sicurezza del paese (il 60 per cento ha ricevuto almeno la prima dose). “Noi al Tempio italiano di Gerusalemme preghiamo ancora all’aperto. Abbiamo deciso così anche se le disposizioni ora permettono di riunirsi al chiuso, seppur in numero un po’ più ridotto e solo per chi ha il famoso tav yarok (il pass verde per chi è vaccinato o è guarito dal covid)”. Per Sierra l’esperienza di questi mesi di preghiera all’aperto è stata un’occasione per riflettere. “Ti rendi conto di come in fondo il luogo non sia importante. Di quanto sia vero che quel che conta è il minian (la partecipazione alla preghiera di dieci uomini adulti) e, di fatto, lo stare insieme. In più, ed è un tema su cui c’è una discussione in corso, a me è piaciuto che non ci fosse una separazione fisica con le donne. Eravamo sempre divisi, ma tutti all’aperto e mi ha dato una sensazione di maggior partecipazione”.
Il segher – chiusura in ebraico – è stato anche un momento di grandi cambiamenti. In particolare per Stern. “Appena iniziato il segher, ho perso il lavoro. Ero nel settore del turismo, abituata a portare a spasso una ventina di persone e di colpo mi sono trovata sola davanti a un computer. È stato un inizio traumatico, poi ho trovato un altro lavoro e la situazione ha cominciato a stabilizzarsi. E mi sono abituata”. Nel mentre, ha fatto l’aliyah, diventando ufficialmente cittadina israeliana. E potendo così votare alle ultime elezioni del 23 marzo. “È stata veramente un’emozione. Qui è vissuto come una festa. Si fa di martedì, la gente va a votare e poi ha la giornata libera”. Una festa della democrazia che però si è ripetuta un po’ troppo spesso negli ultimi due anni, con ben quattro elezioni in questo breve lasso di tempo. “Ci sono mie amiche americane – racconta – che due anni fa hanno fatto l’aliyah e hanno già votato più volte in Israele che negli Stati Uniti”. Il voto, in ogni caso, è stato un ulteriore passo per sentirsi pienamente parte della società israeliana, che, almeno a Tel Aviv – la città dei giovani, la città che non dorme mai – sembra già aver dimenticato il covid. “Ora la situazione è quasi surreale, sembra che il corona (come lo chiamano gli israeliani) non ci sia mai stato: baci, abbracci, party ovunque. – racconta Stern – Io però se dove scegliere, preferisco ancora una cena tranquilla con sei amici che un locale con 300 persone”.
Il pensiero di tutti è poi rivolto all’Italia. “Io da un anno e mezzo non vedo la mia famiglia lì – spiega Avrilingi – Prima davamo per scontata la possibilità di viaggiare, ma ora abbiamo rivalutato il significato delle distanze”. L’auspicio di tutti e tre è che queste distanze tornino a cadere presto.

Daniel Reichel