“Israele ha un nuovo governo.
Primo compito, ricostruire”

La parola d’ordine del nuovo governo israeliano dovrà essere ricostruzione. “Dopo la pandemia, ma anche dopo anni di fratture e divisioni politiche e sociali interne al paese”, sottolinea a Pagine Ebraiche il demografo Sergio Della Pergola. Come milioni di israeliani, ha seguito con grande attenzione la discussione alla Knesset e il voto di fiducia al nuovo esecutivo targato Naftali Bennett e Yair Lapid. Il loro futuro al potere si regge su una coalizione fragile ed eterogenea, che unisce partiti di destra, di sinistra e una compagine araba. “È un governo arcobaleno con i suoi pregi e i suoi difetti. Ha in sé questa diversità che rappresenta buona parte della società israeliana. In essa, dovrà trovare un equilibrio: sfida di questo governo sarà trovare propriamente dei compromessi pragmatici. Non è facile perché vuol dire che tutti dovranno rinunciare ad ottenere il massimo dal proprio programma. Dovranno accontentarsi del meglio”.
Sarà quindi il compromesso a guidare questa coalizione che si regge praticamente su di un seggio, come dimostra il voto di fiducia alla Knesset (60 a favore, 59 contrari, un astenuto). “Le ideologie dovranno restare fuori se si vogliono ottenere risultati. E gli obiettivi non mancano. Serve infatti una ricostruzione materiale e soprattutto morale del Paese, che è molto squassato sia dalla pandemia, sia da due anni e mezzo di caos totale e mancanza assoluta di direzione”, afferma Della Pergola, richiamando le quattro elezioni in circa due anni a cui il paese è stato sottoposto.
“Elezioni che Benjamin Netanyahu non ha vinto. Non è mai riuscito a formare la maggioranza che voleva. E anche ora che parla di frode del secolo perché Bennett si è unito al centrista Lapid invece che a lui, dimentica un elemento: l’elettorato poteva tranquillamente votare Netanyahu e farlo vincere. Non l’ha fatto. E ora la democrazia israeliana, dando grande prova di sé, ha scelto un’altra strada”.
La strada di un governo di rotazione con Bennett e Lapid Premier a rotazione. “Bennett ha fatto una scelta molto molto sofferta, ha fatto un sacco di capriole, di zig zag prima di accettare l’offerta di Lapid. E su questo punto è molto criticabile. Però poi alla fine si è deciso. Ora praticamente non ha più un partito alle spalle e quindi l’unica maniera per creare una nuova base elettorale sarà stare al potere. E portare risultati”. Ex uomo dell’hightech (con alle spalle una exit milionaria, emblema dell’imprenditorialità israeliana), figlio di una coppia di americani e ufficiale dell’esercito, Bennett ha passato la vita politica ammirando Netanyahu e costruendosi allo stesso tempo una fetta di consensi alla destra del leader del Likud. Ora, come spiega Della Pergola, la sua scelta di fare un compromesso al centro, lo ha privato di una parte di elettorato. Ma avrà due anni da Primo ministro per provare a cambiare le cose.
Chi esce rafforzato da questo processo è invece Yair Lapid, leader di Yesh Atid. “È stato lui il vero fautore di questo accordo. Non ho mai avuto un giudizio positivo su di lui, ma devo dire che mi sono ricreduto. Ha cucito e ricucito dove era necessario per realizzare questa larga intesa. Con grande generosità, e nonostante avesse oltre il doppio di parlamentari, ha ceduto a Bennett il primo turno alla guida del paese nella rotazione. Ha dimostrato capacità operativa e oggi si è imposto come il leader del centro in Israele”.
Per Della Pergola in ogni caso il più potente collante per tenere insieme l’attuale coalizione o “governo arcobaleno” rimane l’ostilità veemente di Benjamin Netanyahu, che dopo dodici anni al potere si deve accomodare all’opposizione. “Paradossalmente la minacciosa figura di Netanyahu in realtà rinforza il governo perché tutti lì sanno che se non se non operano bene dovranno andare a casa. E alcuni non hanno praticamente una casa a cui tornare”. Tra questi, oltre al citato Bennett, a rischiare è stato anche Mansour Abbas, leader del partito islamico Ra’am. “Abbas si è preso sulle spalle un rischio colossale. Ha messo da parte e depurato la sua retorica dal revanscismo nazionalista arabo e si è concentrato su richieste specifiche. Per certi versi rimane un nazionalista, e su alcuni temi un estremista, ma ha fatto una scommessa pragmatica, entrando nella coalizione per cercare di ottenere risultati concreti per il suo settore”. Ovvero, per la realtà araba d’Israele, il 20 per cento della popolazione. Le richieste che ha avanzato sono state molte, anche perché a corteggiarlo c’erano sia Lapid che Netanyahu. Alla fine ha scelto il primo, ma se l’esperimento dovesse fallire subito, anche Abbas ne pagherebbe in termini di voti.
Discorsi simili si potrebbero fare per la sinistra di Meretz e quella laburista, o per la destra laica di Gideon Saar o Avigdor Lieberman. “Tutti hanno interesse a fare. E in ogni caso è sano che in una democrazia ci sia alternanza. Era tempo, dopo dodici anni, che venisse cambiata l’aria nelle stanze del potere”.
Netanyahu però non vuole lasciare nulla ai propri avversari. “Certo non è finito. Per me però ha infilato una serie di errori negli ultimi anni. Quello principale è stato farsi trasportare dal suo ego. Ha voluto portare avanti fino alla fine il suo programma da solo, in barba a tutti. Questo alla fine non ha più funzionato, se non a far entrare i più estremisti in parlamento. I Ben Gvir (membro del partito di estrema destra Sionismo religioso). Personaggi a cui, quando ero un giovane riservista, ci ordinavano di dare la caccia perché erano fuori legge”.
Per il demografo Netanyahu avrebbe potuto lasciare per un anno la politica e si sarebbe trovato con un Likud più forte. “Invece si è ostinato a rimanere, anche per combattere i propri processi (per corruzione, frode e abuso d’ufficio) dall’interno. E a chi dice che hanno poche basi giuridiche, ricordo che ad incriminarlo è stato l’uomo che lui stesso ha scelto, che era un suo fidato consigliere: Avichai Mandelblit (procuratore generale dello Stato). È stato messo da Netanyahu e da nessun altro”.
Tornando all’attuale governo, Della Pergola ricorda alcune critiche emerse in questi giorni. “È un governo ashkenazita che appare più elitario del precedente. Quindi si può dire che c’è il ritorno delle vecchie élite. Dall’altro però possiamo parlare del ritorno della mobilità sociale perchéè un governo giovane e moderno come lo Stato d’Israele. È vero che ci sono meno ministri nati in Marocco rispetto al governo uscente, ma ci sono molti ministri figli di matrimoni tra ashkenaziti e sefarditi. E questa è la pista che deve seguire Israele. La fine delle vecchie comunità di origine in favore della creazione di una società israeliana integrata, formata da persone istruite che possano diventare i nuovi leader”.

Daniel Reichel

(Nell’immagine in alto, l’installazione a Piazza Rabin a Tel Aviv, posta dopo il voto di fiducia del nuovo governo in cui si legge, sopra la bandiera d’Israele, la parola Iachad – Insieme)