Pagine Ebraiche Agosto
Il giorno in cui fummo yiddishkayt

“Il guardiano dei suoni”, è un volume che rappresenta un omaggio corale all’etnomusicologo, regista e musicista trentino Renato Morelli in occasione del suo settantesimo compleanno. Una polifonia di voci, dai timbri più diversi, per celebrare il percorso umano, di ricerca e artistico di un personaggio vulcanico che, per diletto, ha dato vita anche a un gruppo klezmer. Di seguito uno stralcio di uno dei brani del libro, firmato dalla regista e intellettuale Mara Cantoni

“Tamara! Sono impazzito per il kleZmer!” (la zeta è aspra) “Sto mettendo su un gruppo…” Solo Morelli mi chiama così, Tamara. Non è il mio nome ma ormai è un codice consolidato. “Klezmer, René, si dice klezmer. Come entusiasmo.”
Frammenti di una lunga storia.
Correva l’anno scolastico 19641965 quando la porta della III Media A si aprì ed entrò una giovane donna bionda che mi parve subito bellissima: la scuola era quella ebraica di Milano e lei era Hana Roth. Per molti attrice e cantante (in Israele dov’era cresciuta e aveva studiato e debuttato, in Italia dov’era già nel Nuovo Canzoniere Italiano), per me era la moglie del prof di ebraico, che ce la presentò. Chiese se ci fosse qualcuno che sapeva fare qualcosa cantare, suonare, recitare perché intendeva organizzare uno spettacolo. Fui l’unica a rispondere (credo di non sbagliare), e la più piccola del gruppo che si formò. Si combinò un montaggio di brevi sketch e canzoni varie (in duo due chitarre e due voci cantavo per esempio Vitti ‘na crozza), ma quello che poteva restare un episodio ci preparò all’anno successivo, quando accadde qualcosa di più importante di quanto potessimo percepire. “Yomi Yomi zing mir a lidele, vos dos meydele vil? Dos meydele vil a kleydele hobn, darf men geyn der shnaydern zogn…”.
Le ragazze con il fazzoletto annodato sotto il mento, i ragazzi con quel cappellino da est-europei che i Beatles avevano adottato (pare via Dylan), sul palco ampio e spoglio vicino alla palestra rappresentavamo lo spirito della “yiddishkayt”, tra canti e racconti, storielle e scenette da shtetl. Non era banale, benché oggi possa sembrarlo. Hana ce ne aveva parlato infatti con l’eccitazione che accompagna i progetti rivoluzionari: degli amici teatranti, là in Israele, stavano raccogliendo materiali eterogenei, per lo più dal mondo chassidico, e l’idea era di farne un piccolo musical antologico, agile e variato, mescolando momenti comici e drammatici, melodie e parlati… (Il musical in questione era Ish Chassid Haya, in italiano C’era una volta un Chassid. Nessuno poteva immaginare che sarebbe andato in scena soltanto nell’autunno del 1968, dopo molto discutere e molte difficoltà, segnato in più dal trauma della Guerra dei Sei Giorni, che nessuno avrebbe voluto dover combattere. E fu realmente qualcosa di trasgressivo per il pubblico israeliano, sia per l’innovazione scenica niente costumi, niente scenografia, niente strumenti tradizionali ma, al contrario, chitarre e abiti casual in una scena quasi neutra, secondo il vento della contro-cultura che soffiava da Occidente sia e soprattutto per aver osato attingere alla corrente più mistica della religione per comunicarla fuori dalle convenzioni e persino con ironia. Un nodo mai sciolto, quello del rapporto tra religione e laicità, a quell’epoca intrecciato con il rifiuto di tutto quanto fosse yiddish a partire dalla lingua, troppo vicina al dolore, troppo vicina al tedesco: il nuovo Stato doveva essere nuovo davvero. Ish Chassid Haya fu scritto, recitato e cantato in ebraico moderno, pur conservando i “Niggunim”, le melodie scandite nient’altro che per sillabe senza significato: ya-mama, ay-di-di-day, bom-biri-bom, ya-bo-boy…).
Noi quella volta cantammo in yiddish. Oyfn Pripetshik, Dire Gelt, Bulbes, Shtil di Nakht… L’elenco sarebbe lungo e comprendeva quel Dona dona che il folk anglosassone aveva già riscoperto e tradotto. Lontana dalle scelte radicali che avrebbero poi siglato Ish Chassid Haya, Hana non aveva rinunciato a trasmetterci questo immenso patrimonio di suoni e piccoli gesti, con un impegno e una dedizione che non ci avrebbero lasciati più, così come la sua voce.

Mara Cantoni